Il duale tiburtino: vestigia dell’indoeuropeo o fenomeno fonetico?

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Introduzione

Il duale è un numero ulteriore che nell’indoeuropeo e nelle lingue semitiche si affianca al singolare e al plurale. Esso è andato perduto già in molti idiomi dell’antichità (compreso il latino) mentre si è conservato in altri del passato (greco, gotico) ma anche attuali (lituano, sloveno).

In tutte queste lingue, oltre al singolare (io, tu, egli) e al plurale (noi, voi, loro), esiste anche il duale: noi due, voi due, loro due. Ma nel duale non si esprime una mera somma matematica (uno più uno uguale due) ma si rappresenta un’entità unica formata da due parti (uno più uno uguale uno costituito da due elementi) (1).  Nel greco antico il duale, presente sia nelle declinazioni che nelle coniugazioni, esprimeva una unità funzionale costituita da due parti e rappresentava il numero che affermava l’unione, la condivisione, la comunione contro la solitudine e l’individualità. In proposito si potrebbe utilizzare il concetto di duplicità  espresso seppure in altro contesto da Erri De Luca: “Due non è il doppio ma il contrario di uno, della sua solitudine. Due è alleanza, filo doppio che non è spezzato” (2).

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Murillo. I ragazzi che mangiano meloni e uva, cm.-155 x 148, 1645-1655

Proprio per questo suo significato, il duale ha un carattere fortemente instabile e sfuggente sia nel tempo che nello spazio. Il suo uso non dipende da regole codificate ma dalla sensibilità linguistica dell’autore e muta dunque anche in relazione all’evoluzione concettuale e alla trasformazione linguistica che ne segue (3). Così quando i numeri da entità logiche tendono ad assumere un carattere più strettamente matematico, il duale persiste nella più conservativa Grecia continentale, specie nella versione attica della lingua, mentre scompare in Saffo e tende a dissolversi anche nelle colonie dell’Asia Minore dove altri autori adottano il più moderno e dinamico dialetto ionico. Platone utilizza il duale di prassi, a differenza dei poeti (tragici e comici che siano) che ne fanno un uso irregolare ed anche contraddittorio, Tucidide preferisce evitarlo. Anche laddove è conservato e utilizzato, comunque, l’uso del duale non è legato ad una semplice regola numerica ma dipende dal valore semantico che l’autore intende attribuire. Il duale scompare con l’affermazione della κοινὴ ellenistica e a nulla valse lo sforzo di riportarlo in vita da parte degli atticisti, il cui tentativo rimase confinato in un ristretto ambito letterario: “Ovunque nella Grecità si era ormai opposta l’unità alla pluralità. Uno contro molti. Uno più uno uguale due, senza eccezione. Come oggi” (4).

Nelle lingue romanze, del duale rimangono tracce molte deboli. In Italiano solo l’aggettivo ed il sostantivo ambo si riferiscono chiaramente ad una coppia di elementi che costituiscono una unità. Pochi altri elementi ne conservano forse qualche retaggio. E’ il caso del termine lenzuolo che ha due plurali: lenzuoli e lenzuola. Secondo l’Enciclopedia Treccani “Il plurale maschile lenzuoli indica più lenzuoli considerati singolarmente: due lenzuoli con angoli per letto matrimoniale, un mucchio di lenzuoli da stendere. Il plurale femminile lenzuola (dal plurale latino lintèola) indica la coppia di lenzuola che si stende per preparare il letto: stare tra le lenzuola; per la culla di Giulia ho preso un paio di lenzuola rosa” (5).

Nella lingua italiana non c’è molto altro che possa essere riferito al duale. Ma forse vi è un ulteriore ambito nel quale andare alla caccia di questo concetto tanto arcaico quanto suggestivo che è costituito dal vasto campo dei dialetti. Questi, in generale, scaturiscono da un sostrato indoeuropeo pre-esistente, diverso a seconda dei territori, su cui si stratificano il latino e, successivamente, le altre lingue dominanti. E’ pertanto possibile, in linea teorica, che i dialetti abbiano conservato qualche reminiscenza  di duale. Questo aspetto risulta ancora inesplorato (almeno a conoscenza dell’autore) e potrebbe divenire oggetto di una nuova linea di ricerca.

Nel dialetto tiburtino alcuni sostantivi assumono una forma diversa a seconda che si riferiscano ad una coppia di elementi o ad un numero maggiore.

 

Fonti e Analisi del testo

Una lingua è strutturalmente codificata dalle sue espressioni contenute nella letteratura. Analogamente i dialetti possono essere definiti sulla base di una narrazione scritta.

Per quanto riguarda il tiburtino, un testo letterario fondamentale è rappresentato dai “Bozzetti dialettali” di Evaristo Petrocchi (1870-1944), pubblicati postumi nel 1956 da parte della Società Tiburtina di Storia e d’Arte (6). Il libro raccoglie alcuni scritti, quelli scampati al bombardamento di Tivoli del 26 maggio 1944 che costò la vita allo stesso autore,  pubblicati su vari giornali e riviste nell’arco di tempo compreso tra il 1892 ed il 1938. Dopo “lu spassaratu”, il soprannome con il quale era noto Evaristo Petrocchi, hanno scritto in dialetto tiburtino numerosi altri autori con risultati spesso pregevoli. Tra questi non si può non ricordare Lidua Mariotti (1893-1974), maestra elementare e autrice di una vasta produzione letteraria perlopiù apparsa sul “Notiziario tiburtino” e in parte raccolta nel libro “La mia gente”, pubblicato nel 1971 e ristampato nel 2012 (7). Ai componimenti di Evaristo Petrocchi e Lidua Mariotti si farà riferimento per l’analisi del testo.

Il lemma due in genere svolge all’interno della frase la funzione di aggettivo (numerale cardinale) o di sostantivo, più raramente quella di pronome. In Petrocchi il sostantivo, il pronome e l’aggettivo numerale cardinale che segue il nome assume nella generalità dei casi la forma dova:“se me guadagno ‘na lira me ne scialo dova” (8). Nel dialetto più moderno di Lidua Mariotti, in tutti questi casi il dova tende a tramutarsi in doa(9). Invece, nella generalità dei casi in cui funge da aggettivo numerale che precede il sostantivo assume la forma do con apostrofo, con dieresi, con accento grave, con accento acuto o senza segni: “do’ baecchi”, “dö fronne”, “dò biunzi”, “do migghia” (10, 11).

Nei testi analizzati solo in un caso si è riscontrata una differenza di plurale che potrebbe dar pensare alla presenza di un genere duale. Si tratta del termine fronna declinato al plurale in due modi diversi, fronne e frunni,  nei “Bozzetti dialettali” di Evaristo Petrocchi (12): “…pigghia ‘na fronna de persia fiorita”; “mitti ggenzu, le dö fronne e la tela de ragnu maschiu drentu allu buciu…”; “…la mette a coce a na piluccia co dò frunni de rosmarinu e de basilicu”. Sia nel caso di fronne che in quello di frunni, ci si riferisce a due fronde (rametti con foglie tenere) di piante diverse senza apparente differenziazione semantica (anche inserendo le frasi nel contesto dei rispettivi racconti).

 

Duale dialettale

Invece nel dialetto parlato, non di rado accade che alcuni termini vengano, almeno apparentemente, declinati al “duale” nel senso che una coppia di elementi assume una forma diversa dal singolare e dal plurale costituito da un numerosità superiore a due. La tabella che segue ne riporta alcuni:

02 TabellaIn tutti questi casi la variazione del duale, tuttavia, non è nella desinenza della parola ma nella radice e la differenziazione sembra avvenire secondo regole fonetiche che non sottintendono diversità semantiche.

In funzione di aggettivo numerale monosillabico che precede il nome, il do trascina foneticamente il sostantivo modificandone radice. Il fenomeno è evidentemente operante solo quando la radice del singolare è diversa da quella del plurale ed in particolare quando la “o” chiusa del singolare diventa “u” nel plurale (lu poce, li puci) o, più raramente, quando la “o” aperta del singolare diventa “o” chiusa del plurale (lu bòve, li bóvi).

L’attrazione che l’aggettivo numerale do esercita sul sostantivo successivo è senz’altro il fenomeno più frequente di duale “fonetico”. Tuttavia, è possibile individuare ulteriori meccanismi di duale “fonetico”. In un testo di Lidua Mariotti l’aggettivo numerale compare per la prima e unica volta nella forma du’ mentre nella riga successiva torna l’abituale forma do’:  “Daccine du’ cucchiari”, “Ha dittu do’ cucchiari” (13).  Anche in questo caso sembra operare un fenomeno fonetico, sebbene di natura diversa rispetto a quello già descritto. La “e” medio-alta di “Daccine” può reggere la vocale alta (chiusa), la “u” di du. Invece la vocale più alta (chiusa), la “u” di “dittu”, condiziona una sorta di compensazione fonetica nella parola successiva di cui viene mantenuto un grado di apertura maggiore, la “o”  di do’.

Anche nel dialetto, come nella lingua italiana, sembrano rintracciabili aspetti residuali di duale che tuttavia  sembrano aver perso ogni significato semantico. Accade per il plurale di lenzuolo che, come in italiano, può assumere sia la forma maschile che quella femminile. Il singolare è declinato come lenzolu mentre al plurale si trova sia la forma maschile che quella femminile: “andó stea legatu lu lenzolu”,  “Io lesta lesta, acchiappà do’ lenzoli” (14). La forma lenzola, non rinvenuta nella letteratura scritta, appartiene all’uso comune. Tuttavia non sembra ravvisarsi, nelle due forme plurali, la stessa distinzione descritta nella lingua italiana (si veda l’introduzione). Nel dialetto eretino (Monterotondo), che ha diversi aspetti comuni con il tiburtino, al plurale troviamo sia la forma maschile (lenzoli) che quella femminile (lenzola) senza apparente differenza semantica (15).

 

Conclusioni

Nel dialetto tiburtino parlato sono identificabili molti sostantivi che assumono una forma diversa se riferiti a due o a più elementi. Tuttavia non si rilevano sufficienti elementi che consentano di identificare un vero e proprio numero duale per diverse ragioni. Innanzitutto non si può individuare una flessione nominale (declinazione) in quanto la variazione “duale” interessa nella generalità dei casi la radice e non la desinenza del sostantivo; né d’altronde sono rintracciabili flessioni verbali (coniugazioni) neanche apparenti. In secondo luogo, tranne l’eccezione di fronna, termini “duali” non sono riportati nella letteratura scritta che essendo una codifica colta avrebbe dovuto conservare le sensibilità linguistiche più sofisticate. Infine la presenza di termini apparentemente duali è legata a meccanismi fonetici e, in particolare, alla presenza dell’aggettivo numerale cardinale do in posizione antecedente il sostantivo e che trascina lo stesso  foneticamente determinandone una modificazione della radice secondo regole precise e identificabili.

 

CDL, 21 Gennaio 2019

L’articolo è già stato pubblicato in alcune sue parti su Il Sestante in data 18 Luglio 2018.

  1. Il significato semantico del duale è magnificamente descritto da Andrea Marcolongo in: Io, noi due, noi. Il duale. In: La lingua geniale. 9 ragioni per amare il greco. Laterza, Bari-Roma, 2018, pp 56-64. Da questo testo sono tratte le informazioni sul duale riportate nell’introduzione della presente trattazione.
  2.  Erri De Luca. Il contrario di uno. Milano, Feltrinelli, 2003, presentazione del libro.
  3.  Andrea Marcolongo, cit., p. 58.
  4.  Andrea Marcolongo, cit., p. 59.
  5.  Lenzuoli o lenzuola? Enciclopedia Treccani online, 2012.
  6. Evaristo Petrocchi, Bozzetti dialettali, con prefazione e glossario di Giuseppe Petrocchi. A cura  della Società Tiburtina di Storia e d’Arte. Arti grafiche Aldo Chicca, Tivoli, 1956.
  7. Lidua Mariotti. La mia gente. Azienda grafica Meschini, Tivoli, 1971, ristampa 2012.
  8. Nei Bozzetti dialettali di Evaristo Petrocchi,  dova come sostantivo è ripetuto 12 volte: p. 8 (sei volte), p. 39, p. 40, p. 61, p. 65, p. 107, p 122; più raramente il sostantivo assume la forma duve (p. 6) o duva (p. 7); nelle più rare forme pronominali assume sempre la forma dova: p. 59, p. 66, p. 68, p. 75, p. 97: “appressu ce ne ghiru dova”, “li lachi so’ tutti e dova fonnuti”, “dova nsemi”, “de centu non se ne sarvanu mancu dova”; come aggettivo che segue assume la forma dova: p. 10.
  9. Ne La mia gente di Lidua Mariotti doa è riportato a p. 9, p. 13, p. 40 (due volte), p. 57, p. 59, p 61, p.65, p.73, p. 130, p. 134, p. 155, p. 197, p. 208, p. 224.
  10. In Petrocchi l’aggettivo numerale che precede il sostantivo, raramente si trova nella forma du (“du chili”, p. 26, “du sordi”, p. 29) mentre nella generalità dei casi assume la forma do: 17 volte con apostrofo (p.5 due volte, p. 8, p. 10, p. 26, p. 29, p. 32, p. 34, p. 37 due volte, p. 39, p. 42, p. 43 due volte), 6 volte con dieresi (p. 21 5 volte, p. 39), 5 volte con accento grave (p. 21, p. 26, p. 27, p. 94, p. 122) [1] o 9 volte senza segni (p. 26 due volte, p. 27, p. 29, p. 62 p. 65, p. 68, p. 76, p. 43). Un campionario comprende: “do’ lire”, “do’ punti”, “do’ bicchieri”, “do’ pescitti”, “do’ centesimi”, “do’ bicchierini”, “do’ centesimi”, “do’ prosperi”, “do’ sculacciate”, “do’ sordi”, “dö pangialli”, “dö panpanati”, “dö ciammelle”, “dö baecchi”, “dò merluzzi”, “dò trigghie”, “dò lenguattule”, “dò boccate”, “do pescitti”, “do ora”, “do sordi”, “do libbre”, “do frunni”, “do anni”, “do mignatte”.
  11.  In Mariotti, l’aggettivo numerale cardinale in posizione antecedente assume la forma do 11 volte con l’apostrofo (p. 15, p. 69, p. 91, p. 92, p. 141, p. 159, p. 194, p. 197, p. 200, p. 202, p. 215), 4 volte con accento acuto (p. 18, p 153, p. 210, p. 251), 2 volte con accento grave (p. 40, p. 194), 5 volte senza segni (p. 18, p. 22, p. 107, p. 259 2 volte). In due occasioni doa (p. 18, p. 68)[1] ed in altre due assume la forma du (p. 18, p. 194): “doa cose nsemi”.
  12. Evaristo Petrocchi, Bozzetti dialettali, cit., p. 24 (fronna e fronne), p. 65 (frunni).
  13. Lidua Mariotti, La mia gente, cit. p. 94.
  14. Lidua Mariotti, La mia gente, cit., p. 135.
  15.  Autori Vari. Antologia dei poeti dialettali eretini, a cura di Antonio Lagrasta. Roma, Università Popolare Eretina “A. Martinoia”, 2010.

 

 

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