Dall’astensionismo l’opportunità decisiva per una sinistra democratica

 

 

L’astensionismo elettorale si riduce in Europa ma aumenta in Italia. Il PD di Renzi stravince drenando voti dagli altri partiti ma senza attrarre consenso da un astensionismo europeista, non populista, non anti-istituzionale e, almeno nella frazione recuperabile al voto, sensibile alle istanze progressiste. Se questo è il limite della vittoria di Renzi, costituisce nello stesso tempo la grande opportunità che si offre al PD per allargare ulteriormente il perimetro del proprio consenso e vincere così le prossime elezioni nazionali. A patto di marcare il suo carattere di sinistra democratica e di liberarsi da quei potentati che costituiscono una barriera opposta alla società civile e al voto di opinione.

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Le elezioni europee sono andate secondo le previsioni con l’avanzata dei movimenti populistici, la tenuta dei partiti conservatori, la difficoltà di socialisti e democratici (figura 1). Non è mancata qualche sorpresa, a cominciare dalla vittoria inaspettata nelle proporzioni del PD di Renzi. Sull’astensionismo in Europa tre considerazioni: si conferma essere il partito più forte mantenendosi intorno al 57%; si è lievemente ridotto rispetto alla volta precedente; l’andamento complessivo mostra una crescita nel tempo (figura 2). In Italia il fenomeno è stato rilevante (43%) ed è cresciuto sia rispetto alle europee del 2009 che rispetto alle politiche del 2013. E proprio questo dato deve far riflettere i partiti che, se vogliono vincere le elezioni nazionali, devono assolutamente guadagnare consensi nella vastissima area dell’astensionismo.

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Figura 1.

 Un’analisi accurata del fenomeno deve ancora essere condotta ma intanto si può procedere a qualche considerazione preliminare.      A cominciare da una constatazione per certi aspetti persino elementare: gli elettori che non si sono recati alle urne hanno inteso contestare i partiti tradizionali (e le istituzione comunitarie che rappresentano) ma, nello stesso tempo, hanno rifiutato di cedere al neo-populismo (e alle pulsioni anti-istituzionali che esso esprime). Questa considerazione risulta fondata se si ammette che, in questa fase, il populismo abbia esercitato la massima capacità di attrazione. E, almeno in Italia, questo sembra verosimile vista l’ampiezza e la diversificazione dell’offerta populista (Forza Italia, Movimento 5 stelle, Lega, Fratelli d’Italia). Nello schieramento non europeista può essere arruolato lo stesso NCD di Alfano che, pur accreditandosi come forza moderata, ha una classe dirigente marchiata dalla militanza in un partito estremista (l’ex PDL oggi FI) e dalle esperienze in governi (quelli berlusconiani) di impronta a dir poco euroscettica. La lista Tsipras, che si presentava espressamente come portatrice di un europeismo fortemente critico nei confronti delle istituzioni comunitarie, in Italia è stata individuata come referente dalla sinistra marxista massimalista che ne ha rappresentato una delle componenti fondatrici.

Dunque è plausibile che, almeno in Italia, il populismo abbia raccolto il massimo dei consensi possibili per l’ampiezza e la varietà dell’offerta. Di conseguenza diventa fondata la considerazione che l’astensione scaturisca prevalentemente da un’opinione pubblica non populista, genericamente europeista e non anti-istituzionale ma che non ha trovato un’offerta politica convincente né a destra né a sinistra.

Figura 2
Figura 2

Sulla composizione, moderata o progressista, dell’astensionismo è utile un’analisi di lungo termine che riguardi i flussi elettorali in Italia e nei principali Paesi dell’occidente.

Per lungo tempo si è sostenuto che alla base dell’astensionismo vi fosse la convinzione di un’offerta politica non sufficientemente diversificata. Negli Stati Uniti questo atteggiamento esprimerebbe un consenso di sistema: la democrazia americana non corre alcun pericolo, qualunque dei due partiti maggioritari vinca. In Europa invece più spesso l’astensionismo avrebbe significato un rifiuto dell’offerta politica nell’ambito di una generica contestazione di sistema. Questa analisi conserva una sua validità di fondo ma è divenuta ormai insufficiente.

Negli Stati Uniti del secondo dopoguerra l’analisi della percentuale di votanti alle elezioni presidenziali mostra un andamento (figura 3) cui contribuiscono due fenomeni. Innanzitutto un incremento dei votanti si registra in occasioni degli scontri che marcano una differenza ideologica tra i due candidati maggiori. Così nel 1962, l’anno del confronto tra  Kennedy e Nixon, la proporzione di votanti raggiunge il suo massimo storico, il 62,8%,  per poi discendere progressivamente sino ad un minimo del 49,0% nel 1996, quando si affrontarono Clinton e Dole. Successivamente, le figure di G.W. Bush e di Obama, oltre all’ingresso sulla scena politica di movimenti della società civile come il Tea Party ed Occupy Wall Street, hanno accentuato il profilo conservatore e progressista rispettivamente del partito repubblicano e di quello democratico e la percentuale di votanti è tornata a salire sino a raggiungere, nel 2013, il 57,5%.

Figura 3.
Figura 3.

In secondo luogo il confronto ideologico sembra funzionare meglio, nel senso che condiziona un incremento percentuale dei votanti, se è il candidato democratico ad essere fortemente caratterizzato. La nuova frontiera di Kennedy, le proposte riformatrici del primo Clinton (a cominciare da una riforma sanitaria di tipo universalistico) e la fama progressista di Obama hanno favorito la partecipazione di una parte dell’elettorato tradizionalmente assenteista, e di orientamento evidentemente non conservatore, determinando incrementi significativi della percentuale di votanti. Lo stesso effetto trainante non è riscontrabile per i candidati conservatori anche quando, come nel caso di Nixon e Reagan, si è trattato di figure forti e ben caratterizzate. A questa regola fa eccezione solo la seconda elezione di G.W. Bush, quando si rilevò un significativo incremento di votanti. Ma quelle elezioni rappresentarono un caso particolare perché avvennero  dopo lo shock dell’attentato alle Torri Gemelle e nel pieno del clima di “guerra contro il terrorismo” vissuto dagli Stati Uniti in quel periodo.

In Europa il comportamento degli elettori è stato condizionato da un contesto politico in qualche modo speculare a quello americano. Per lungo tempo la differenza tra destra e sinistra è apparsa ben definita in tutti i Paesi e non solo in quelli, come l’Italia, che registravano la presenza di forti partiti comunisti. A marcare una differenza visibile e percepita dagli elettori contribuì, negli anni ’70 del Novecento, l’emergere  definitivo del modello del Welfare State talmente suggestivo che ne furono attratti anche i partiti conservatori. E’ in questo periodo che in Germania, Francia, Gran Bretagna  e Italia si registra la più elevata partecipazione al voto (figura 4). Da allora la percentuale degli elettori ha iniziato a decrescere senza che la china risentisse dell’emergere di una altro modello, questa volta conservatore, il liberismo reaganiano, cui non sono rimasti insensibili nemmeno i partiti progressisti. Questi, nelle esperienze di governo, hanno finito per assecondare un ridimensionamento sostanziale dello Stato sociale, soprattutto in tema di diritti del lavoro, per l’incapacità di proporre un modello alternativo economicamente sostenibile.

Anche in Europa, dunque, l’astensionismo si riduce quando le differenze tra moderati e progressisti sembrano più evidenti e quando tale differenza è determinata da una proposta progressista forte.

Figura 4.
Figura 4.

Alla luce di quanto detto si comprendono meglio le ragioni che hanno condizionato il risultato elettorale italiano. Intanto non sembra azzardato affermare che i partiti populisti in Italia abbiano perso le elezioni perché impotenti a recuperare consensi dall’ampia area di un astensionismo nel quale prevale un atteggiamento non anti-istituzionale, non ostile all’idea di Europa e, almeno nella frazione mobile (quella che può tornare a votare), sensibile alle istanze progressiste. Questa considerazione porterebbe a concludere che il PD di Renzi ha vinto per le ragioni opposte. Ma non è così.

Sulla base dell’analisi condotta da SWG (figura 5) il PD alle ultime elezioni europee ha recuperato da ciascuno degli altri partiti una quantità di voti di gran lunga superiore a quanti ne abbia ceduti. Il saldo risulta invece negativo con l’astensionismo verso la quale il PD ha perso 1.400.000 voti ricevendone solo 1.140.000. In sostanza il PD ha vinto le elezioni drenando voti dai  partiti di area moderata. Invece non è riuscito a recuperare consensi da un’area che avrebbe dovuto essere amica proprio perché europeista e sensibile alle istanze democratiche. Che cosa è mancato perché questo avvenisse? Da questo punto di vista sono due le indicazioni suggerite dal risultato elettorale, una relativa al contenuto della proposta politica, l’altra inerente l’organizzazione di partito.

Figura 5.
Figura 5.

Innanzitutto Il PD ha la necessità di ribadire ed anzi di marcare il proprio profilo di sinistra democratica attraverso la elaborazione di proposte politiche realmente alternative alla linea di austerità, e non genericamente contestatarie. Può farlo facendo riferimento alla politica espansiva già praticata con successo negli Stati Uniti (si veda in proposito L’inevitabile futuro socialdemocratico dell’America pubblicato in altra parte del sito). Perché sinora i partiti del PSE si sono limitati a condividere un manifesto programmatico al ribasso con poca anima e scarsi contenuti. E senza una vera capacità progettuale non è pensabile governare l’Europa e nemmeno l’Italia. L’austerità economica non ha dato i risultati sperati, ma i partiti progressisti in Europa stentano a tradurre in proposta politica una visione diversa che, sul piano concettuale, ha già trovato una sua compiuta elaborazione nelle riflessioni di una parte importante del mondo accademico ed economico americano, a cominciare dai premi Nobel Paul Krugman e Joseph E. Stiglitiz (per i contenuti di questa riflessione si veda L’austerità ineguale pubblicata in altra parte del sito).

La discussione sin qui svolta, anche se riferita soprattutto all’Italia, ha utilizzato macrocategorie concettuali: europeismo vs populismo, destra vs sinistra, austerità vs politica espansiva. Ma, in tutta evidenza, il risultato delle elezioni politiche risentirà in misura decisiva di ulteriori fattori ed in particolare dell’organizzazione con la quale il PD affronterà la prova.

Il PD nasce dalla “fusione fredda” di due culture politiche cadute in grave crisi, l’una (il PCI) per ragioni ideologiche, l’altra (la DC) per la decomposizione della sua forma-partito. Era necessaria una profonda riflessione politica che consentisse la nascita di un moderno partito di tipo occidentale. Ma tale processo ha stentato a decollare in un ambiente nel quale le culture di origine, quella comunista e quella cattolica, erano fondamentalmente estranee all’occidente liberal-democratico. Ora l’occasione di una nuova revisione ideologica si ripropone alla luce delle politiche neokeynesiane seguite in America. Intanto però nel PD, senza un’adeguate riflessione culturale, è emersa progressivamente una struttura di partito nella quale hanno acquisito un ruolo centrale i potentati locali, tanto efficienti nel mantenere consensi non politici quanto efficaci nel respingere i contributi che potessero venire dalla società civile. In alcuni casi vere e proprie satrapie sono sorte e cresciute attraverso una gestione molto opaca del potere.

Sulla questione morale, che nel PD si è riproposta con forza proprio alla vigilia delle elezioni europee con l’arresto di un deputato ed il coinvolgimento nella gestione non limpida dell’Expo, converrà fare subito una precisazione. Il PD non può pensare di continuare a rincorrere gli eventi prendendo atto delle inchieste della magistratura. Se intende proporsi come forza responsabile deve assolutamente giocare di anticipo ed emanciparsi dalle consorterie affaristiche, ipoteche che prima o poi dovrà scontare.

Ma il danno prodotto dai feudi periferici è più ampio perché essi costituiscono strutture autoreferenziali sorde all’ascolto e insensibili alla partecipazione dei cittadini. Ed è questa la ragione della nulla capacità di attrazione dimostrata dal PD nei confronti dei voti di opinione rifugiatisi nell’astensione.

E’ appena il caso di precisare il ragionamento sin qui svolto non significa affermare che il PD sia dominato dai centri di potere e tantomeno da comitati di affari. Il personale politico è in larga maggioranza qualificato e la linea politica non da oggi attenta all’interesse generale. Il PD rappresenta ancora una speranza per tutti coloro che vogliono un Paese civile, progredito e democratico. Proprio questa aspettativa pone il PD nella condizione di attrarre consensi e partecipazione in una misura che sarebbe molto più ampia senza il freno decisivo delle consorterie.  

La dirigenza PD deve fare bene i conti su quanto pesano i potentati locali in termini elettorali (1, 2, 3 milioni di voti?) e quanto consenso potrebbe recuperare dalla vastissima area di un astensionismo (alle europee circa 22 milioni di elettori) che nella sua frazione mobile appare orientato in senso progressista. Per non parlare poi di quell’ampia parte dell’elettorato grillino (alle europee circa 6 milioni di voti) che si è mostrato sensibile alle istanze democratiche e che è recuperabile con una linea di rigore morale ed apertura politica.

Se il PD non troverà la forza di rinnovarsi negli uomini e nell’organizzazione e non riuscirà ad autoriformarsi, non sarà dunque per un calcolo elettoralistico. Ma perché ha subito una mutazione genetica irreversibile. E allora le speranze di molti italiani si orienteranno altrove.

 

CDL, Tivoli, 1 Giugno 2014

 

 

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