Regni dimenticati

 

 

Nel territorio compreso tra l’Egitto e l’India sono sorte le tre grandi religioni monoteistiche ma sono fioriti anche altri culti, altrettanto antichi, di cui rimangono poche vestigia in piccole ed enigmatiche comunità, miracolosamente sopravvissute sino ai giorni d’oggi. Comunità che ora però rischiano di essere cancellate definitivamente dallo scontro militare e politico che sconvolge quelle regioni. E così le memorie  residue di un mondo

Figura 1.Civiltà superstiti del medio oriente
Figura 1. Civiltà superstiti del Medio Oriente

antichissimo sono sul punto di scomparire per sempre.

Fifura 2. Copertina del libro di Gerard Russell.
Figura 2. Copertina del libro di Gerard Russell.

I Mandei, per certi aspetti, possono essere considerati i superstiti e gli eredi degli antichi babilonesi. Gli Yazidi conservano molti elementi delle religioni antiche, compresi alcuni riconducibili al mitraismo. Gli Zoroastriani sono gli ultimi custodi della antica cultura persiana. I Drusi sono seguaci di una versione eretica dell’Islam nella quale trova posto la venerazione degli antichi filosofi greci (in particolare Pitagora, Platone e Plotino). I Samaritani praticano un culto jahvista diverso da quello ebraico perpetuatosi per millenni con pochi adattamenti. Attraverso i Copti egiziani sono giunti sino a noi gli echi della scrittura e delle concezioni degli antichi egizi. I Kalasha pakistani, gli ultimi pagani, seguono ancora riti dionisiaci di derivazione greco-romana e ci riconducono ad atmosfere arcadiche ormai perdute (ma forse mai esistite). Queste ed altre comunità sono ormai a rischio di estinzione, minacciate sia dalla guerra che insanguina quei territori sia dal processo di modernizzazione e globalizzazione. Eppure resistono tenacemente ad ogni tentativo di assimilazione, a testimoniare la grande vitalità delle civiltà antiche e a dimostrare che un altro mondo è possibile.

Le fedi superstiti e le varianti minoritarie delle religioni maggiori presentano un interesse storico e culturale di enorme importanza e costituiscono una vera “riserva di civiltà”. Innanzitutto perché la loro stessa presenza rende quel mondo, il Medio Oriente, oggettivamente plurale e molto più variegato di quanto si possa immaginare.

Figura 3. Immagine tratta dal Baudolino di Umberto Eco.
Figura 3. Immagine tratta dal Baudolino di Umberto Eco.

In secondo luogo questi culti, soprattutto nei secoli passati, hanno potuto stabilire una relazione osmotica con le altre credenze sviluppando un carattere sincretista che costituisce la memoria
residua di quell’humus culturale scaturito dall’incontro e dalla contaminazione reciproca di conoscenze antiche. Ancora, la natura tribale dei culti fa sì che essi costituiscano oggi la ragione identitaria delle comunità con conseguente rinuncia al proselitismo e sterilizzazione di ogni velleità di sopraffazione. Infine, avendo subito per secoli  soprusi, oppressioni e vere e proprie persecuzioni, queste tradizioni hanno dovuto sviluppare una visione tollerante del mondo.  

Così le fedi superstiti, al di là di scelte consapevoli, sono divenute oggettivamente centri di irradiazione di civiltà, piccoli ma preziosi proprio perché operanti in un contesto nel quale il livello del conflitto prevede invece l’annientamento dell’altro. Un micro-sistema immunitario in un grande corpo malato: questa la funzione svolta in Medio Oriente dai regni dimenticati che l’Occidente dovrebbe per questo accudire, difendere, preservare. Recentemente un diplomatico inglese, Gerard Russell, ha voluto dedicare un libro a queste pregiate rarità1. Un viaggio che evocherebbe le atmosfere fiabesche del Baudolino di Umberto Eco, se non fosse per il fatto che quei regni esistono realmente e sono veramente in pericolo.

 

MANDEI, GLI ULTIMI GNOSICI

I Mandei (dall’aramaico “manda”: gnosi, saggezza), detti anche cristiani di San Giovanni, sono una comunità religiosa che vive tuttora nella regione meridionale della Mesopotamia (alla confluenza del Tigri e dell’Eufrate nello Shatt al-‘Arab) e nelle aree limitrofe dell’Iran (in prossimità del fiume Karun)2. Parlano un dialetto aramaico ed hanno origine incerta: secondo alcuni studiosi sono autoctoni della Mesopotamia, secondo altri sono originari della Palestina da cui sarebbero fuggiti nel I secolo d.C. a seguito delle persecuzioni romane.

Figura 4. Croce mandeana
Figura 4. Croce mandeana

Il loro culto, monoteista, è considerato l’unica religione gnosica ancora esistente essendo basata sul dualismo tra il mondo della luce e quello delle tenebre. L’uomo vive nel mondo delle tenebre sino alla morte quando la sua anima, attraverso stadi intermedi, trasmigra nel mondo della luce. Lo stesso Mani, il fondatore del manicheismo, fu influenzato nella sua elaborazione teorica dal culto dei Mandei con i quali era cresciuto a stretto contatto. La comunità rifiuta la figura di Gesù, rinnega quella di Abramo ma venera San Giovanni Battista perché il battesimo rappresenta uno dei due momenti centrali della loro fede (l’altro è la celebrazione dei morti). La cerimonia della purificazione in acqua si ripete con cadenza settimanale e precede ogni evento importante. Essa deve avvenire in acqua corrente (da qui la necessità di vivere in prossimità dei fiumi). La croce con il panno bianco (darfesh), è uno dei simboli dei Mandei che ritengono sia comparsa sulla terra al momento del battesimo di Giovanni Battista. Dagli antichi babilonesi hanno ereditato la fascinazione per l’astronomia da cui traggono una cosmogonia complessa che implica, tra l’altro, l’attribuzione di una forza soprannaturale agli astri. E sino a non molto tempo fa i sacerdoti, in alcuni rituali, invocavano ancora gli dei dell’antica Babilonia. Tra le ricorrenze religiose ve n’è una che celebra il dolore del popolo per un evento luttuoso di cui si è persa la memoria ma che secondo alcuni sacerdoti Mandei è da identificare con la strage dell’esercito del Faraone nel Mar Rosso. L’evento, commemorato dagli ebrei con gioia, per ragioni sconosciute sarebbe invece ricordato con dolore dai Mandei. Diversi gli aspetti misterici della religione ed in particolare la segretezza di alcuni testi sacri conosciuti solo dai sacerdoti e che non solo non possono assolutamente essere letti dai profani ma nemmeno dai fedeli. L’attribuzione di un nome religioso viene comunicato dal sacerdote al momento del battesimo solo all’interessato e non può essere rivelato a nessuno per non correre il rischio di essere esposti a rituali di magia nera. Molto diffusi sono i sortilegi e i vaticini che fanno riferimento ad antiche divinità babilonesi: Bel, il dio supremo portatore di bontà; Libat o Ishtar, dea dell’amore; Nabu, dio della saggezza, da cui trasse il nome Nabucodonosr.

La complessità stratificazione multiculturale ha fatto sì che, nel corso dei secoli, il Mandeismo fosse  variamente interpretato come eresia cristiana, setta di derivazione ebraica (vicina agli Esseni),  ultima testimonianza di culti babilonesi pre-cristiani. Il Mandeismo rifiuta ogni forma di violenza anche se praticata per legittima difesa.

Figura 5. Mandei. Rituale di purificazione nell'acqua.
Figura 5. Mandei. Rituale di purificazione nell’acqua.

Quando gli arabi conquistarono la Mesopotamia, nel 636, i Mandei riuscirono a contrattare uno status di religione protetta come culto che, avendo un testo sacro e riconoscendo un profeta, poteva essere considerato appartenente al Libro. La tutela accordata era legata anche al fatto che gli arabi li identificavano con i misteriosi Sabei che il Corano includeva tra la gente del Libro. Successivamente, avendo perso ogni forma di tutela, dovettero rifugiarsi nella parte più meridionale della Mesopatamia, l’area paludosa dello Shatt al-‘Arab, per sottrarsi alle persecuzioni e sopravvivere sino ai giorni nostri. Con l’ascesa al potere di  Saddam Hussein, nel 1979, furono inizialmente tollerati: i Mandei era soliti affiliarsi ad una tribù  come “annessi”, in una posizione subalterna che consentiva loro di non doversi convertire all’Islam e di ricevere un minimo di protezione. Dopo la prima guerra del Golfo (1990-1991) la repressione delle popolazioni sciite del sud dell’Iraq coinvolse anche i Mandei, molti dei quali dovettero fuggire nel nord del Paese sotto la protezione dei curdi. Dopo la seconda guerra del Golfo (2003) la maggior parte dei Mandei iracheni sono stati costretti a fuggire all’estero. Si stima che oggi le comunità dell’Iraq e dell’Iran contino circa 70.000 fedeli (oltre ai rifugiati all’estero).

I Sabei (dall’aramaico “seba”: immergere nell’acqua), citati dal Corano e da fonti ancora più antiche, sono difficilmente identificabili3. Si tratterebbe di comunità secondo alcuni insediate nella parte meridionale della penisola arabica, l’attuale Yemen, mentre secondo altri situate nel nord della Mesopotamia. Più probabilmente il termine indica sette cristiane o ebraiche non ortodosse variamente distribuite che avevano in comune alcuni riti ed in particolare la purificazione con l’acqua. Da qui la confusione con i  Mandei che avevano nel battesimo e nella ricorrente immersione purificatrice in acqua un rituale centrale.

I Mandei sono anche confusi sia con gli antichi caldei, una popolazione della Mesopotamia che si assimilò nel corso del tempo alla cultura babilonese, che con gli attuali caldei, un patriarcato cattolico tuttora operante in Iraq la cui origine risale alla conversione di gruppi di nestoriani.

Con il termine di Caldei si intende in senso stretto la comunità che fa riferimento al patriarcato caldeo, il quale dopo un percorso accidentato della durata di secoli si è infine riunito alla Chiesa cattolica. La sua origine risale al nestorianesimo, la corrente cristiana condannata come eresia nel Concilio di Efeso (431) e che sosteneva la duplice ed irriducibile natura (umana e divina, il figlio e il Cristo) della figura del redentore. Dopo un lungo periodo di riavvicinamenti e subitanee separazioni con la Chiesa di Roma, alcuni gruppi di caldei si convertirono definitivamente al cattolicesimo nel XVI secolo. Da allora costituiscono un patriarcato autonomo interno alla Chiesa cattolica.

Invece la Chiesa Assira (o Assiro-caldea o siriaca), dopo aver disconosciuto il concilio di Efeso (431), è rimasta fedele al nestorianesimo ed è pertanto autonoma rispetto sia alla Chiesa cattolica che ai patriarcati ortodossi. E’ stato oggetto di diverse le persecuzioni in epoca ottomana4,5. I fedeli sono perlopiù distribuiti nelle sedi europee e americane della diaspora. Oltre centomila cristiani assiri vivono nell’area di Detroit ed il loro patriarca risiede a Chicago. Esigua la comunità rimasta nella terra di origine, la Mesopotamia.

 

YAZIDI, GLI EREDI DI MITRA (E DI MOLTO ALTRO)

Gli Yazidi sono una comunità organizzata in tribù, di origine curda e religione monoteista propria, perlopiù insediati nell’Iraq nord-occidentale6. In passato, ma ancora oggi dallo Stato islamico (IS), sono stati considerati “adoratori del diavolo” per il ruolo decisivo che la loro religione assegna all’angelo decaduto. Gli Yazidi credono, infatti, in un Dio unico che però entra in relazione con il mondo attraverso sette angeli, il principale dei quali è Melek Ta’us o Iblis, l’angelo Pavone, ribelle ma poi redento, divenuto demiurgo del mondo e perciò particolarmente venerato. Attraverso la figura dell’angelo corrotto e poi redento, gli yazidi risolvono la contraddizione storica insita nelle religioni monoteiste tra il Dio sommo creatore di solo bene e la presenza del demonio come male assoluto.

Figura 6. Pavone yazida.
Figura 6. Pavone yazida.

Comunità yazide sono distribuite in Iraq, Siria, Georgia, Armenia, Iran. La maggior parte si trova nell’Iraq nord-occidentale dove per secoli hanno abitato la regione montuosa del Sinjar (la vetta più alta raggiunge i 1.463 metri). In virtù di una posizione orografica poco accessibile, gli yazidi hanno potuto resistere ai vari tentativi compiuti dagli ottomani di reprimere quella che veniva considerata una pericolosa eresia islamica. Negli anni settanta Saddam Hussein, allo scopo di meglio controllare le riottose province del Nord a maggioranza curda, costrinse gli yazidi a trasferirsi in un’area pianeggiante posta alle pendici della catena del Sinjar, al di fuori di quello che è oggi il territorio del governo regionale del Kurdistan. Lontani dalle loro terre gli yazidi dipendevano dagli aiuti alimentari del governo centrale. La vulnerabilità geografica e politica ha fatto sì che nell’Agosto 2014 gli yazidi fossero attaccati e massacrati dagli integralisti dello IS. Prima che i peshmerga curdi decidessero di difenderli, ne sono stati uccisi circa 5.000. Altri 5.000 sono stati catturati e ridotti in schiavitù mentre altri 50.000 si sono dovuti rifugiare nelle terre ataviche del Sinjar (ma le cifre del genocidio vengono aggiornate di continuo e non è escluso che siano destinate a salire di molto).

Secondo alcuni, gli yazidi sono i curdi più puri perché hanno continuato a professare quella che sarebbe stata in origine l’antica religione del Kurdistan7, prima della conversione all’Islam. Su questa interpretazione comunque non mancano voci discordanti, anche all’interno della stessa comunità yazida. Certo è che con i curdi gli yazidi condividono la lingua, il kurmanji.

Figura 7. Ragazza yazida.
Figura 7. Ragazza yazida.

Lo yazidismo è una religione sincretista. Presenta punti in comune con l’Islam (riconoscono Maometto come profeta), in particolare nella versione scita (riconoscono Alì come discendente del profeta), il cristianesimo (usano il crocifisso sia pure come amuleto contro il malocchio, celebrano una cerimonia che ricorda il battesimo, riconoscono Abramo come profeta), la antica religione assira (adorano il sole come Dio inconoscibile, praticano lo stesso sacrificio rituale del toro), la cultura greca (i cui filosofi sono considerati alla stregua di profeti), l’ebraismo (il rituale della circoncisione, la concezione abramitica, la venerazione di Abramo), il mitraismo che dall’Oriente si era diffuso nell’Impero romano (le cappelle ipogee, le preghiere da eseguire tre volte al giorno, l’adorazione del sole, il sacrificio del toro, la stretta di mano come segno di appartenenza).

Anche lo yazidismo, come il Mandeismo, mantiene segrete le conoscenze più importanti cui possono avere accesso solo i membri della casta sacerdotale. Per questa ragione non esistono testi scritti. Gli yazidi facendo riferimento ad un culto con caratteri tribali non intendono espandere la comunità, di cui la specificità della religione costituisce la base culturale che serve a rafforzare i vincoli. Lo yazidismo, tuttavia, rifiuta il proselitismo non solo per ragioni identitarie ma proprio per una concezione plurale della fede che ammette diversi percorsi per giungere a Dio. 

Gli yazidi condividono con gli alawiti e con gli antichi harrani oggi scomparsi la venerazione dei pianeti. Quando Neil Armstrong posò i piedi sulla luna tra gli alawiti si scatenò una disputa teologica. La luna infatti era considerata come la manifestazione fisica di un spirito che fungeva da intermediario tra Dio e gli uomini e non poteva essere solo un ammasso di rocce. Non è noto come la dottrina alawita abbia risolto questa questione. Gli alawiti vivono prevalentemente in Siria (almeno 5 milioni di fedeli) ma alcune comunità sono presenti in Libano  (circa 200.000). Insediamenti minori si trovano nella Turchia meridionale.Gli alawiti sono considerati una setta eterodossa dello sciismo che fa risalire la propria origine all’undicesimo imam. Ad essa appartiene la famiglia degli Assad. Considerano servitori di Dio non solo Maometto e Gesù ma anche alcuni personaggi storici come Platone e Alessandro Magno

 

ZOROASTRIANI, I FEDELI DI ZARATUSTRA

La vasta area che va dall’Iran all’India sino al Mar Caspio era abitata nel terzo millennio a.C. da popoli di ceppo linguistico indo-europeo che si divisero in due rami, iranico ed indiano, e che svilupparono religioni diverse. Intorno al VII-VI secolo a.C. tra i popoli iranici si diffuse e divenne prevalente lo zoroastrismo, la religione predicata da Zarathustra (o Zoroastro)8. Il culto fu soppiantato dall’Islam quando gli arabi, nel VII secolo d.C., conquistarono l’impero persiano sasanida. La conversione all’Islam fu un fenomeno di massa e lo zoroastrimo rimase confinato a piccoli nuclei situati in Iran o emigrati in India.

Figura 8. Faravahar, o spirito guardiano dello zoroastrismol
Figura 8. Faravahar, lo spirito guardiano dello zoroastrismo.

Il fondatore, Zaratustra, visse in un’epoca ancora imprecisata (secondo alcuni autori alla fine del secondo millennio a.C , secondo altri nel VII-VI secolo a.C.). Il principale libro sacro è l’Avesta, una raccolta di testi scritti in antico iranico in epoche molto diverse che contiene anche i “Canti” nei quali Zaratustra si propone come profeta dell’essere creatore supremo, Ahura Mazdā (o, a seconda dei testi, Ohrmuzd). Questi aveva due figli gemelli: uno portatore di bene, Spenta Mainyu, e uno malvagio, Angra Mainyu (o Ahriman). Si ammetteva l’esistenza di altre divinità subordinate tra le quali la dea madre Anahita e il dio solare Mithra. In sostanza, un monoteismo che conviveva con una concezione dualistica e recepiva elementi politeistici.

Figura 9. Immagine tradizionale di Zaratustra.
Figura 9. Immagine tradizionale di Zaratustra.

Responsabilità dell’uomo era collaborare alla vittoria del bene in cambio di una ricompensa ultraterrena9. Gli Zoroastriani credevano, infatti, che chiunque perseguisse il bene avrebbe avuto accesso alla Casa del Canto o Dimora della Luce e la sua anima avrebbe vissuto in eterno. Per la prima volta l’Aldilà veniva aperto a tutti e l’accesso vincolato al perseguimento del bene. Al contrario i seguaci dell’essere maligno, Angra Mainyu, erano destinati alle tenebre e al tormento eterno. D’altronde, secondo alcune interpretazioni, lo Zoroastrimo nasce dall’esigenza di strutturare una società stanziale, quella iranica, dedita alla pastorizia e all’agricoltura ed esposta alle scorrerie di popolazioni guerriere. Dunque gli Zoroastriani inventarono i concetti di paradiso e inferno. Non solo ma inventeranno la morale, come ebbe a sottolineare Nietzshe. Fu solo dopo l’incontro con la cultura persiana che Platone iniziò ad elaborare l’idea che le anime dopo la morte avrebbero avuto un destino di ricompensa o punizione sulla base del comportamento avuto in vita dalla persona.

Gli Zoroastriani furono accusati dall’Islam di adorare il fuoco, custodito nei loro santuari, che invece era solo un simbolo, sia pure molto importante perché rappresentava l’elemento puro creato dall’essere supremo. Un altro simbolo importante è quello dell’angelo guardiano (faravahr). La religione rifiuta il proselitismo in quanto gli zoroaastriani si considerano un popolo legato da vincoli di sangue e dal lignaggio. La casta sacerdotale era rappresentata dai Magi.

Figura 10. Atar zoroastrismo.
Figura 10. Atar dello zoroastrismo.

Lo zoroastrismo ebbe il periodo di massima diffusione nell’impero persiano achemida (600-330 a.C), in particolare dopo la conversione di Achmenide Vishtaspa e di Ciro il Grande. Seguì un periodo di declino sotto Alessandro Magno nel corso del quale andò perduto persino il testo sacro. Rifiorì secoli dopo sotto la dinastia persiana dei Sassanidi (221-651 d.C.). Infine fu soppiantato dall’Islam con la conquista araba (VII secolo d.C.). Fu allora che una parte degli Zoroastriani, piuttosto che convertirsi alla nuova religione, preferì andare in esilio in India presso Bombay dove attualmente vive la comunità più numerosa. Nei secoli successivi la comunità iranica è sempre stata contrastata ed oggi è ridotta a trentamila membri. In tempi recenti gli Shah Pahlavi incoraggiarono lo zoroastrismo mentre il regime degli ayatollah manifestò nei loro confronto l’ostilità riservata a tutti i non musulmani tanto che dalla rivoluzione khomeinsta il numero di zoroastriano è sceso da trentamila a diecimila (perlopiù insediati nella regione del Kerman, nell’Iran sud-orientale). In India invece gli Zoroastriani, che prendono il nome di parsi, hanno potuto godere di una certa libertà esercitando anche una discreta influenza politica e sociale (tanto da essere talora considerati dagli induisti come una vera e propria casta). Si ritiene che oggi gli Zoroastriani nel mondo siano circa 125.000, di cui ottantamila in India, diecimila in Iran e gli altri sparsi tra Gran Bretagna, USA e Canada.

 

DRUSI, I DISCEPOLI DI PITAGORA

I Drusi, di etnia e lingua araba, sono i seguaci di una setta eretica di derivazione sciita (sostengono che il successore del profeta sia il cugino Alì) e segnatamente della corrente degli ismailiti (identificano il settimo imam in Ismail e attribuiscono ai profeti una natura divina)10. La setta nacque in Egitto nell’XI secolo ma è attualmente presente solo in Libano (500.000), Siria (600.000), Israele (80.000), Giordania (50.000). Il nome deriva da uno dei fondatori, l’egiziano al-Darazī, ma i Drusi preferiscono essere chiamati “unitari” per rimarcare il carattere monoteista della loro religione.

Figura 11. Insediamenti drusi.
Figura 11. Insediamenti drusi.

La storia della fondazione della setta è particolarmente tormentata. Essa nasce per separazione dagli ismailiti quando il sesto califfo della dinastia fatimide, al-Hakim (925-1021), dopo aver esteso il dominio ismailita dal Nord Africa all’Egitto, rivendicò per sé attributi divini. I suoi principali discepoli furono al-Darazī, egiziano, e Hamza ibn‘Alī, di origine persiana, che iniziarono a diffondere una nuova religione dal carattere iniziatico in tutto il regno fatimide. Ma la segretezza venne ben presto violata, forse dallo stesso al-Darazī (che infatti i Drusi considerano oggi un traditore). Al-Hakim fu costretto a sconfessare il troppo zelante apostolo e ad esiliarlo in Siria, dove egli continuò la sua predicazione per scomparire ben presto, probabilmente ucciso. Lo stesso califfo scomparve misteriosamente nel 1021 per essere sostituito dal figlio. Da questo momento iniziò la persecuzione dei Drusi sia da parte degli sciiti che, successivamente, da parte dei sunniti. Gli adepti furono costretti a rifugiarsi verso i territori degli attuali Libano e Siria, a rinunciare al proselitismo, ad esasperare il carattere di segretezza. Ancora oggi la comunità drusa è articolata su due livelli: il primo iniziatico, accessibile solo ad alcuni ed è preposto alla conservazione del culto, il secondo laico che comprende tutti gli altri che sono rigorosamente esclusi dalla conoscenza dei dogmi religiosi. L’appartenenza all’uno o all’altro livello prescinde dal lignaggio. Ai laici (che i Drusi chiamano “ignoranti”) appartiene lo stesso principe Walid Jumblatt, il leader più potente della comunità drusa libanese, protagonista assoluto della guerra civile in Libano, erede di una dinastia aristocratica secolare. Solo gli iniziati ed il basso clero (uomini e donne) sono tenuti alla conoscenza dei dogmi, al rispetto delle liturgie, ad una condotta di vita di tipo ascetico. I laici, gli ignoranti, sono esclusi dalla conoscenza dogmatica e non sono tenuti a rispettare i riti (possono persino mangiare carne di maiale e bere vino). Per loro essere Drusi significa avere senso di appartenenza ed obbedire ad una sorta di lealtà sociale verso la comunità piuttosto che una scelta religiosa vera e propria. E forse questo particolare aspetto spiega anche come dalla comunità drusa libanese sia potuto scaturire un moderno partito laico di ispirazione socialista radicale.

Figura 12. Pentagramma druso.
Figura 12. Pentagramma druso.

A causa delle persecuzioni, i Drusi sono divenuti una comunità talmente chiusa da assumere i caratteri di un popolo fondamentalmente costituito da agricoltori governati da un’aristocrazia di tipo feudale. In Libano gli Jumblatt sono riusciti nella difficile operazione di mantenere il potere feudale e fondare un partito socialista radicale. Quando furono create le nazioni arabe, i Drusi si ritrovarono divisi tra Siria, Libano e Israele. Ma, sebbene si riconoscano come unica comunità, non hanno mai reclamato uno Stato, adattandosi alla situazione politica e schierandosi perlopiù a favore dei governi. Così i Drusi israeliani prestano regolarmente il servizio militare e partecipano attivamente alla vita politica nella quale sono pienamente integrati. Quelli che popolano le alture del Golan, annesse da Israele dopo la guerra dei sei giorni, sono rimasti fedeli alla Siria. I Drusi libanesi, sotto la guida di Walid Jumblatt, costituiscono una milizia agguerrita che fu protagonista assoluta e per certi versi decisiva della lunga guerra civile libanese conclusasi nel 1990. In Siria i Drusi hanno a lungo sostenuto il governo in carica godendo di ampia libertà in quanto considerati culturalmente vicini alla minoranza islamica eretica alawita cui appartengono gli Assad.  

Sebbene i Drusi si considerino musulmani, le correnti islamiche ortodosse (sia sunnite che sciite) non li considerano tali. Il Corano e i suoi precetti rappresentano la base della loro religione. Diversi gli elementi distintivi: l’idea di una Mente Universale, la metempsicosi, il rispetto di tutte le religioni celesti. La credenza nella reincarnazione contribuisce in maniera decisiva a fare dei Drusi una società molto chiusa e addirittura impermeabile. E’ loro convinzione che le persone possano rinascere solo all’interno della comunità: da qui il rifiuto del matrimonio misto e di ogni contaminazione con altre fedi. Ma c’è un ulteriore elemento che pure caratterizza la religione drusa, che già il concetto di Mente Universale fa presagire, ed è il rapporto preferenziale con la filosofia greca. Un rapporto tanto intimo da portare a considerare alla stregua di profeti alcuni filosofi, e segnatamente Pitagora (570-495 a.C.), Platone (428-348 a.C.) e Plotino (204-270 d.C.).

Figura 14. Anziani drusi sulle altrure del Golan.
Figura 13. Anziani drusi sulle altrure del Golan.

Lo stesso pentagramma, il principale simbolo religioso che campeggia nelle moschee druse, è di chiara derivazione pitagorica. Infatti, la stella a cinque punte costituita da dieci triangoli, era l’emblema stesso del teorema di Pitagora ma aveva per i suoi seguaci un significato simbolico che andava ben oltre la matematica. Nella numerologia pitagorica il due rappresentava la donna, il tre l’uomo, il cinque il matrimonio (unione di donna e uomo), il quattro la giustizia (essendo equamente divisibile per due), il dieci la perfezione. Così la stella composta da dieci triangoli i cui lati hanno lunghezza tre, quattro e cinque, rappresenta la perfezione che nasce dall’unione uomo-donna (il cinque) e che valorizza la donna (il due) in una condizione di perfetta parità (il quattro). Ma il legame tra la religione drusa e una parte della filosofia greca non è solo di tipo simbolico e non ha carattere solo misterico. La relazione è molto più profonda perché riguarda la concezione del mondo e quella del divino. Non a caso la religione drusa fa riferimento in particolare a quella parte del pensiero di Platone che riguarda l’universale, e a Plotino, il fondatore del neoplatonismo antico (in piena epoca romana), ideatore della teoria emanazionista in base alla quale l’unità divina mantiene la sua sostanza pur manifestandosi attraverso onde di creazione (teoria detta anche dell’”effulgurazione” per la similitudine con una fonte di luce inesauribile da cui emana luce incessantemente). Per certi versi invece le teorie pitagoriche, finalizzate a scoprire le intime regole geometriche che governano il mondo, rappresentano uno strumento descrittivo dell’Uno che diventa molteplicità attraverso una serie di meccanismi di moltiplicazione. Quando nel 529 d.C. Giustiniano chiuse l’Accademia di Atene, fondata da Platone nove secoli prima e in quanto custode del pensiero antico ritenuta incompatibile con il cristianesimo, i filosofi superstiti trovarono rifugio in Medio Oriente, lontani da Bisanzio, dove diffusero le loro idee e in qualche caso, come quello dei Drusi che verranno, riusciranno ad influenzare le nuove religioni. Così potrà nascere il connubio tra Islam e filosofia greca che caratterizza la religione drusa. Ancora una volta il mito della metempsicosi supporta il dogma di fede: i Drusi si considerano la reincarnazione dei discepoli di Pitagora e dei seguaci di Maometto.

Tra le particolarità del culto, almeno in passato al momento della fondazione (non è chiaro se ancora oggi), vi era la convinzione che il Dio unico potesse incarnarsi e manifestarsi in forma di uomo per condurre l’umanità verso nuove fasi di conoscenza. Questo sarebbe accaduto con Mosè (fondatore dell’ebraismo), Gesù (fondatore del cristianesimo), Maometto (fondatore dell’Islam) ma prima ancora con Pitagora, Platone e Aristotele che pure erano venerati come figure sacre.  Il mito della metempsicosi sostiene anche il carattere iniziatico della religione drusa alla cui conoscenza ci si può preparare solo attraverso un lungo processo di reincarnazione dell’anima che predispone ad accogliere la verità (la conoscenza come reminiscenza).

 

SAMARITANI, I SUPERSTITI DI ISRAELE

I Samaritani sono semiti seguaci di un culto jahvista per molti aspetti diverso da quello ebraico. Parlano un dialetto aramaico e costituiscono oggi una piccolissima comunità di 750 persone insediate in un villaggio vicino Nablus situato sul monte Garizim (Palestina centro-settentrionale) e in una strada di un sobborgo di Tel Aviv11.

Figura 15. Regni di Israele e Giuda.
Figura 14. Regni di Israele e Giuda.

Tutto comincia nel VIII secolo a.C., quando gli Assiri conquistano i territori di Israele e Giudea. Al tempo infatti i seguaci di Jahvè erano suddivisi in due regni l’uno contro l’altro armati, pur avendo un’origine comune discendendo gli abitanti dall’uno e dall’altro dalle dodici tribù di Israele. Quello posto a Nord, con capitale Nablus, era il regno di Israele. L’altro, con capitale Gerusalemme, era il regno di Giuda. Nella versione samaritana il regno di Israele era più antico e sede dei luoghi santi della religione. Gli Assiri conquistarono prima Israele e ne deportarono gli abitanti, ad eccezione di nuclei che rimasero sul territorio dove continuarono a praticare l’antico culto. Successivamente gli Assiri conquistarono anche il regno di Giuda deportandone gli abitanti a Babilonia. Quando i giudei tornarono in Patria dopo la cattività babilonese il loro culto si era definitivamente corrotto dalla commistione con altre credenze. Gli israeliti si definirono perciò Samaritani, dal termine aramaico “shamarin” (i custodi) e definirono i giudei con l’appellativo di ebrei. Nella versione ebrea gli abitanti del regno di Israele furono interamente deportati (le famose dieci tribù perdute) ed il territorio ripopolato, come era abitudine degli Assiri, da genti provenienti da altra parti dell’impero e che portarono con loro usi, costumi e credenze. Invece le tre tribù superstiti che tornarono dalla cattività babilonese (giuditi, leviti e beniamiti) avevano preservato l’ebraismo originario (le tribù perdute sarebbero quindi in realtà nove) da cui discende l’attuale.

Figura 16. Samaritani sul monte Garizim.
Figura 15. Samaritani sul monte Garizim.

Il monte Garizim (868 m.), situato in prossimità di Nablus, è il luogo simbolo dei Samaritani. Con la sua terra fu plasmato Adamo e lì (non sull’Ararat) approdò l’arca di Noè. Sul monte Garizim (e non sul Sinai), Mosè ricevette le dodici tavole e lì (non sul Moriaj) Abramo condusse Isacco per il sacrificio a Dio. In questo luogo gli antichi Israeliti eressero un tempio, intorno al 328 a.C., che rivaleggiava con quello di Gerusalemme e la cui edificazione di fatto sancì lo scisma dei Samaritani dagli ebrei. In un villaggio sulle sue pendici negli anni ’80 si trasferirono i Samaritani della vicina Nablus per sfuggire le tensioni generate dalla prima intifada.

All’epoca di Gesù, i Samaritani erano forse ancora mezzo milione. Nel corso della storia hanno subito persecuzioni da parte degli ebrei, furono relativamente risparmiati dai romani, patirono ancora la persecuzione dei cristiani (in particolare a partire da Giustiniano). Durante la lunga dominazione araba, godettero all’inizio di una ampia libertà di culto ma poi furono di nuovo perseguitati e costretti in gran parte alla conversione all’Islam. L’una dopo l’altra si estinsero le comunità de Il Cairo, Gaza, Damasco e Aleppo. Un insediamento samaritano sopravvisse in prossimità di Nablus.

Il culto samaritano non è di tipo misterico (non vi sono iniziati) ma ha una connotazione fortemente tribale. A tutt’oggi è proibito sposarsi con membri che non appartengono alla comunità ed il divieto vale soprattutto per le donne perché, secondo la religione samaritana, i figli ereditano il culto del padre. Inoltre il fatto che una donna si unisca in matrimonio con un uomo  di altra fede depaupera la comunità (oggi peraltro piccolissima) di una sposa. Il divieto vale anche per gli uomini per il timore di provocare ostilità da parte delle altre comunità in un contesto ambientale che è particolarmente teso. Nel caso degli uomini, sia pure con molta difficoltà, in un passato anche recente sono state ammesse delle eccezioni.

Figura 17. Rovine sul monte Garizim, 1880.
Figura 16. Rovine sul monte Garizim, 1880.

Sul piano dottrinario, a parte una componente idolatrica importata da altri popoli e di cui il culto fu successivamente depurato, la religione samaritana è basata sulla Legge, quella stabilita nel Pentateuco (lo stesso degli ebrei) che tuttavia è stato adattato con regole dapprima trasmesse oralmente ed infine fissate per iscritto in vari testi. I Samaritani non riconoscono nessuna delle tradizioni ebraiche successive alla stesura dei primi cinque libri della Torah. Ad esempio, dal momento che questi non prescrivono esplicitamente agli uomini di coprire il capo, gli uomini non indossano la kippah, né le donne il velo. I Samaritani praticano ancora il sacrificio rituale di animali in occasione della Pasqua. La cerimonia si svolge sul monte Garizim e prevede, dopo una serie di rituali, lo sgozzamento di agnelli offerti dalla famiglie più ricche ed il cui sangue viene utilizzato per marchiare gli architravi delle case del villaggio. In linea generale, sul piano dei riti, i Samaritani seguono procedure più arcaiche  rispetto agli ebrei.

Le differenze con gli ebrei dunque non riguardano i dogmi religiosi ma la liturgia che però, è bene ricordare, per i culti jahvisti non è affatto un aspetto secondario ma rappresenta anzi la sola forma attraverso la quale la fede può sostanziarsi. Le diversità sono avvertite con tale intensità che nel conflitto arabo-israeliano i Samaritani sono neutrali e si sforzano di intrattenere buoni rapporti sia con gli islamici che con gli ebrei (riuscendo perlopiù nel loro intento).

 

COPTI, GLI ULTIMI EGIZI

I Copti sono, oggi, i cristiani di Egitto che appartengono ad una Chiesa autocefala divisa da quella cattolica e da quella ortodossa per la scelta teologica miafisita, variante “attenuata” del monofisismo12. Sulla base di un censimento del 1986 i Copti in Egitto erano circa lo 8% della popolazione (3.300.000 fedeli). In Etiopia la Chiesa autocefala di derivazione egiziana è la confessione prevalente contando circa 32 milioni di fedeli (43% della popolazione). In Eritrea la Chiesa autocefala, filiazione di quella etiope, è seguita da circa 2 milioni di fedeli (30% della popolazione).

Figura 18. Patriarcati.
Figura 17. Patriarcati.

Il nome viene da un termine arabo (Qub,  Qif, Quf) corruzione del greco Aiguptos, «Egiziano». I Copti vantano per sé non solo una specificità religiosa ma anche etnica ritenendosi eredi dell’antica popolazione egizia che, proprio in virtù delle scelta religiose compiute, poco si sarebbe mescolata con i dominatori bizantini ed arabi. Per quanto riguarda la lingua i Copti hanno adottato l’arabo a partire dal XII secolo ma sino ad allora avevano utilizzato un idioma, il copto (oggi confinato all’uso liturgico), che deriva direttamente dall’egiziano antico. Nell’antico Egitto vi erano tre tipi di scrittura: il geroglifico con i suoi elementi pittografici; lo ieratico in cui ogni segno corrispondeva ad un geroglifico (una sorta di corsivo del geroglifico); il demotico nel quale si perde la corrispondenza uno a uno con il geroglifico. I Copti utilizzavano il demotico ma nel III secolo adottarono l’alfabeto greco con l’aggiunta di 7 segni demotici che servivano ad esprimere suoni ignoti alla fonetica ellenica. La lingua copta, di cui si conoscono almeno sette varianti dialettali, nasce così dall’incontro tra il demotico e la grafia greca. A partire dal XII secolo i Copti hanno adottato l’arabo conservando il copto solo per la liturgia.

La cristianizzazione dell’Egitto avvenne in epoca romana ad opera dell’evangelista Marco inviato direttamente da Pietro. Il Cristianesimo divenne rapidamente la religione prevalente al punto che Alessandria divenne ben presto un patriarcato. I patriarcati cristiani si formano nei primi secoli come aggregazioni di diocesi attorno agli episcopati più importanti. Già al tempo del Concilio di Nicea (325) risultavano costituiti i patriarcati di Roma e Antiochia i cui vescovi erano successori diretti di Pietro (che fu episcopus di Antiochia prima che di Roma) e quello di Alessandria, il cui vescovo era successore di Marco, inviato da Pietro in Egitto. Il patriarcato fu riconosciuto nel 381 anche a Costantinopoli, come nuova Roma, e nel 451 a Gerusalemme.

Figura 19. Croce copta.
Figura 18. Croce copta.

La Chiesa copta autocefala nasce dopo il Concilio di Calcedonia (451) che, convocato proprio all’uopo, ribadisce la condanna del monofisismo come eresia. Le eresie cristologiche del tempo erano fondamentalmente tre. Nell’interpretazione della Chiesa di Roma, Gesù era una sola Persona nella quale si fondevano una natura umana ed una divina. L’Arianesimo aveva sostenuto la natura esclusivamente umana di Gesù. Il Monofisismo invece ne affermava la natura esclusivamente divina. Questo orientamento si era diffuso particolarmente in Egitto e Siria, dove rischiava di diventare una religione “patriottica” in evidente contrasto con la vocazione unitaria che l’impero doveva avere secondo la visione bizantina. Sorgerà poi un’ulteriore eresia, il Nestorianesimo, che ammetteva la duplice natura di Cristo ma sosteneva che tra le due parti non ci fosse una fusione al punto di poter affermare che in Cristo convivevano non due nature ma due persone, l’una umana e l’altra divina.

Figura 20. Copti. Monastero bianco presso Tebe.
Figura 19. Copti. Monastero bianco presso Tebe.

Dopo il concilio di Calcedonia, il patriarcato di Alessandria rimase fedele al monofisismo e dopo una serie di vicende anche sanguinose si distaccò definitivamente da Roma e Costantinopoli. Come filiazione della casa madre egiziana nacquero la Chiesa di Nubia (il territorio a cavallo tra gli attuali Egitto e Sudan), poi scomparsa, quella di Etiopia resasi autonoma solo nel 1959, quella di Eritrea divenuta autocefala nel 1993. Dopo lo scisma egiziano, a nulla valsero i tentativi di compromesso compiuti da vari imperatori per ricondurre la Chiesa copta nell’alveo dell’ortodossia. A causa delle persecuzioni messe in atto dai bizantini, la conquista araba dell’Egitto fu vista come una liberazione dai Copti che inizialmente poterono godere dei favori concessi dai nuovo dominatori in funzione anti-bizantina. Ma ben presto gli arabi intrapresero una politica di assimilazione, perseguita attraverso vessazioni continue (anche fiscali) e talora vere e proprie persecuzioni, che assottigliò sempre più le fila dei Copti, i quali divennero minoranza nel X secolo ed erano ridotti ad un decimo della popolazione nel XIV secolo. In tempi più recenti i Copti hanno avuto vicende alterne. Nasser, presidente dal 1956 al 1960, concesse libertà di culto ma nel suo panarabismo non trovava posto la tradizione nazionale egiziana custodita così gelosamente dai Copti. Inoltre la sua riforma agraria penalizzò in modo particolare l’elite laica copta. La politica di redistribuzione della terra messa in atto da Nasser riguardava in realtà tutti i proprietari terrieri, sia musulmani che cristiani. Quest’ultimi comunque persero circa il 75% delle proprietà e l’influenza dei Copti sulla società egiziana ne uscì fortemente indebolite. Ma fu con Sadat, dal 1970 al 1981, che i Copti furono sottoposti alle vessazioni più severe e a veri e propri pogrom in virtù dell’accordo che il presidente aveva stretto con l’intellighenzia islamica e che lasciava campo libero alle formazioni più estremiste, almeno quando le loro azioni erano rivolte contro i cristiani. Con Mubarack le condizioni dei Copti non migliorarono. Il resto è storia di oggi.      

Figura 21. Monaci copti, foto scattata tra il 1898 e il 1914.
Figura 20. Monaci copti, foto scattata tra il 1898 e il 1914.

Dal punto di vista dottrinario i Copti professano un cristianesimo di derivazione ortodossa nel quale inseriscono i dogmi miafisiti mutuati dal monofisismo. Nel monofisismo si afferma la natura unicamente divina di Cristo mentre nel miafisismo si ammette la fusione delle due persone in una sola natura composita. La struttura della religione copta in Egitto è costituita ancora oggi non solo dalla Chiese ma anche e forse soprattutto dai monasteri. Non si dimentichi che in Egitto nasce sia il monachesimo eremita, con Sant’Antonio (nel III secolo), che quello cenobita ad opera di San Pacomio (nel IV secolo). Per lungo tempo i monasteri rappresentarono il braccio operativo del patriarcato alessandrino promuovendo un’ampia letteratura e contribuendo in maniera decisiva al controllo sociale. A parte l’uso liturgico del demotico, nella religione copta non mancano altri riferimenti alle antiche concezioni egiziane come quella delle telonie, specie di dogane che prima di giungere al cospetto divino le anime devono passare subendo l’esame (sui vizi e sulle virtù) di demoni. In Egitto vi sono anche Copti cattolici (circa 200.000) che fanno riferimento al patriarcato cattolico di Alessandria, eretto nel 1824 e ristabilito nel 1895.

 

KALASHA, I FIGLI DI DIONISO

Figura 22. Kafiristan.
Figura 21. Kafiristan.

I Kalasha (o Kalash) sono una etnia che vive sulle pendici pakistane dell’Hindu Kush nella parte posta a cavallo tra Afganistan e Pakistan13. La maggior parte di essi (circa 4.000) sono rimasti seguaci di un culto pagano politeista. Sulla base di accurate analisi genetiche possono essere considerati di probabile origine euro-asiatica occidentale con una forte componente europea. Parlano una lingua sanscrita, il  kalashwar. Gli ultimi pagani, figli di Dioniso, l’ultima falange macedone, i re pastori. Così sono stati via via definiti nel corso degli anni.

I Kalasha attuali sono gli ultimi eredi di una popolazione, suddivisa in molte tribù, che abitava le pendici e le vette dell’Hindu Kush sia sul versante afgano che su quello pakistano (alcune di queste tribù, e segnatamente i Kam che popolavano l’alta montagna, erano particolarmente bellicose). Sul versante afgano la regione fu denominata Kafiristan proprio perché popolata da quelli che i musulmani consideravano infedeli (in arabo “kafir”). Dopo la conversione forzata degli abitanti all’Islam, il Kafiristan divenne l’attuale Nuristan. Sul versante pakistano una delle tribù, i Kalasha, rimase fedele al culto pagano ma nel corso del tempo ha dovuto ritrarsi sempre più, abbandonando i territori più bassi ormai islamizzati e rintanandosi in tre valli di  montagna (Birir, Rumbur, Bumburet) del distretto di Chitral (oggi 300.000 abitanti di religione islamica).

Figura 23. Giovane kalasha.
Figura 22. Giovane kalasha.

L’origine di queste etnie rimane avvolta nel mistero. La leggenda narra che Alessandro Magno nel corso della spedizione in Oriente (IV secolo a.C.) non ebbe il coraggio di penetrare su quei monti popolati da uomini bellicosi e gelosi della loro indipendenza. Per lungo tempo se ne tennero alla larga anche gli islamici e persino le orde di Tamerlano dovettero rinunciare a conquistarne il territorio. Sino a che, nel 1895, l’emiro afgano Kabul Abdur Rahman, con il beneplacito degli inglesi, conquistò il Kafiristan, fece strage delle popolazioni autoctone, impose ai superstiti la conversione forzata all’Islam. Ma non poté sconfinare nell’attuale Pakistan, sotto il controllo diretto degli inglesi, cosicché una delle tribù, i Kalasha, che abitava le valli della provincia di Chitral, riuscì a sottrarsi alla strage e all’islamizzazione giungendo sino a noi. Oggi i Kalasha sono assediati dai ricorrenti tentativi di islamizzazione messi in atto dal governo pakistano ma sono minacciati anche dalla modernità, compreso il turismo che negli ultimi anni si va intensificando.

Figura 24. Gandau Kalasha.
Figura 23. Gandau Kalasha.

Dal punto di vista etnico i Kalasha e i Kafiri islamizzati hanno in prevalenza carnagione rosea, capelli biondi ed occhi chiari. I Kalasha si considerano con orgoglio discendenti dei soldati di Alessandro Magno. Questa ipotesi ha un fondamento storico nella dinastia greca che, dopo la morte di Alessandro, governò sui territori dell’Afganistan meridionale e del Pakistan. Le indagini genetiche hanno documentato un profilo indo-europeo ed uno studio del 2014 ha dimostrato che il patrimonio genetico Kalasha, in un periodo compreso tra il 990 a.C ed il 206 a.C., si è arricchito di geni estranei forse europei. 

I Kalasha, per ragioni diverse, hanno sempre esercitato una forte suggestione sulla cultura occidentale. Gli inglesi vi inviarono esploratori e ricercatori allo scopo di studiare il territorio, verificare le attitudini guerriere e sondare la disponibilità ad alleanze militari. Uno dei maggiori studiosi fu non a caso George Scott Robertson (1852-1916), un medico funzionario inglese che visse a lungo tra i Kam (una delle tribù kafire), per studiarne i comportamenti. Concluse che era meglio lasciarli in pace. L’antropologo italiano Fosco Maraini (1912-2004) li descrisse nel libro “Gli ultimi pagani”. Nei territori kalasha è ambientata una novella di Rudyart Kipling (1865-1936), “L’uomo che volle farsi re”. Negli anni ’70, dopo aver esplorato l’India, gli hippies scoprirono le comunità Kalasha come modello di società ideale. Più di recente, prima la Grecia e poi la Macedonia, hanno voluto stabilire relazioni culturali. Dalla Grecia sono giunte anche molte donazioni con le quali sono state costruite scuole elementari in tutte le valli kalasha.

Figura 25. Altare kalasha.
Figura 24. Altare kalasha.

Praticano un’economia di sussistenza limitata alla coltivazione di grano e vite e all’allevamento di ovini e bovini. I villaggi hanno struttura diversa. La maggior parte sono costituiti da case abbastanza moderne e, in alcune zone, fornite di energia elettrica. Altri villaggi, soprattutto nella valle di Birir, sono strutturati sotto forma di un grande edificio di legno ancorato alla roccia, organizzato su più livelli, dove ogni famiglia dispone praticamente di una sola stanza affacciata su balconi comuni e collegati da scale.

Il pantheon kalasha prevede innanzitutto il padre degli dei, Di-Zau o Dezau (nella denominazione sembra evidente la radice sanscrita “diau-h”, cielo, da cui deriva probabilmente anche il termine “zeus”). Vi sono inoltre: Balumain (il dio ariete), Kushumai (dea dei campi e dell’amore), Dezalik (dea del parto), Jestak (dea della famiglia). Molte le figure mitologiche: fate con tre seni, spiriti protettori  delle vette, cavalli soprannaturali. Gli antenati che ritornano a far visita alla comunità dopo la morte sono celebrati sotto forma di effigi lignee (Gundau), la maggior parte delle quali sono stare rubate dai ricercatori o distrutte dai musulmani come segni di idolatria.

Figura 26. Villaggio edificio in Birir.
Figura 25. Villaggio edificio in Birir.

Ma l’aspetto della cultura Kalasha che più suggestiona è la festa rituale del vino (chaumos). Si celebra nel corso del solstizio d’inverno, dura una settimana e segue cerimoniali arcaici (diversi nelle tre valli) nei quali l’immaginario occidentale riconosce i tratti essenziali dei riti dionisiaci della civiltà greco-romana. D’altronde la mitologia Kalasha narra che a porre le basi della comunità sia stato lo stesso Dioniso, in viaggio verso le Indie in compagnia delle baccanti e degli spiriti dei boschi (in realtà il consumo rituale del vino è comune anche in altre civiltà). Solo in occasione del chaumos, i Kalasha bevono vino sino ad ubriacarsi (durante il resto dell’anno sono astemi) e danno vita ad una festa orgiastica fatta di sacrifici animali, guerre di parole, canti e balli sfrenati (ma il sesso è vietato per l’intera durata della celebrazione). Nel corso della festa vengono indossati i costumi tradizionali, dai colori sempre sgargianti, e le donne indossano i kupas, copricapi costituiti di lane, argenti e soprattutto conchiglie. A vigilare che i rituali siano aderenti alla tradizione sono preposti gli anziani dei villaggi (dove non esiste una figura assimilabile ad un capo). L’ultimo giorno della festa si procede al sacrificio rituale di decine di caproni. Il rito è praticato in alta montagna davanti all’altare del “grande dio”, fatto di cumuli di pietra ornati da quattro teste di cavallo scolpite in legno.  Ed in questo momento che i giovani possono cadere in una sorta di trance sciamanico caratterizzato da uno stato di coscienza alterato e tremori convulsivi diffusi con scene che evocano le baccanti di Euripide.

 

CDL, Tivoli, 1 Gennaio 2017

 

  1. Gerard Russell. Regni dimenticati. Viaggio nelle religioni minacciate del Medio Oriente. Milano, Adelphi, 2016.
  2. Le informazioni riportate sono tratte perlopiù da due fonti: la Mandean Associations Union ed il testo di Jorunn Jacobsen Buckely (The Mandeans: ancient texts and modern people. Oxford, Oxford University press, 2002). Nella parte che riguarda i legami con la tradizione babilonese, si è attinto al libro di Gerard Russell, cit., pp 27-68.
  3. Voce “Sabei” dell’Enciclopedia Sapere, 10 Settembre 2016.
  4. Joseph Yacoub (traduzione Anna Maria Brogi). Assiro-caldei, un Olocausto cristiano. L’Avvenire, 23 giugno 2014.
  5. Massimo Giusio. Chiesa ortodossa Assiro-Caldea. In: Osservatorio pluralismo religioso, 12 Settembre 2016.
  6. Le informazioni sugli Yazidi sono tratte in massima parte dal libro di Gerard Russell, cit., pp 69-108.
  7. Scott Anderson. Terre spezzate: viaggio nel caos del mondo arabo. La Repubblica, 14 Agosto 2016.
  8. Le informazioni seguenti che riguardano lo zoroastrismo sono tratte perlopiù da due fonti: Massimo Introvigne, Pierluigi Zoccatelli. Le religioni in Italia. Presenze zoroastriane in Italia; Silvano Demarchi. Zoroastrismo religione dimenticata. Sito della Società Teosofica, 1 Gennaio 2008.
  9. Gerard Russell, cit., pp 109-149.
  10. Le informazioni riportate sulla comunità drusa sono tratte da: Mirella Galletti, Storia della Siria contemporanea, Milano, Bompiani, 2006; Giorgio Levi Della Vida. Drusi, In: Enciclopedia Treccani 1932; Gerard Russell, cit., pp 151-188.
  11.  Sui samaritani le informazioni sono state tratte essenzialmente da due fonti: Gerard Russell, cit., pp 189-226; Giuseppe Ricciotti. Samaritani. Enciclopedia Treccani 1936.
  12. Sui Copti si veda: Guidi Michelangelo, Giordani Mario, Volbach Fritz. Copti. Enciclopedia Italiana, 1931; Gerard Russell, cit., pp 227-269.
  13. Quanto riportato sui Kalasha è in gran parte contenuto nel testo di George Russell (cit., pp 271-312). Alcune delle informazioni sono tratte da: Luke Rehmat. Do you know the Kalasha tribe of Pakistan? In: The Kalasha Times, 29 gennaio 2013; Canestrini Duccio. Tra i Kalash, gli ultimi infedeli. Airone, n° 98, Giugno 1989; Italo Bertolasi. Figli di Dioniso. D Repubblica, n° 105, Giugno 1998. Belle le immagini della popolazione kalasha riportate sul sito di Arianna Editrice.

 

 

Scopri di più da

Abbonati ora per continuare a leggere e avere accesso all'archivio completo.

Continue reading