Manzoni, Sciascia e la responsabilità dell’individuo – Storia della colonna infame

 

 

Figura 1. Illustrazione di Francesco Gonin (1808-1889) per l’edizione dei Promessi Sposi del 1840.

Il tentativo di dar conto, seppure superficialmente o a volo d’uccello – come si dice in questi casi – dell’innumerevole serie di significati che la critica successiva si sarebbe ostinata a voler attribuire alla “Storia della Colonna Infame” di Alessandro Manzoni si rivelerebbe ben presto velleitario, ne siamo consapevoli. Così come quello, altrettanto irrealizzabile in poche righe, di sbrogliare in un’enumerazione appena intelligibile l’intricatissima matassa delle opinioni che essa seppe suscitare, o favorire a seconda dei casi, in quanti si presero la briga di affrontarne la lettura e di lasciarsene suggestionare.

Per questo, rassegnati all’inevitabilità di una qualche conclusione, quantunque parziale, cui pur reputiamo necessario giungere affinché l’atto stesso di leggere abbia un qualche senso, spulciando questa messe indistinta di ossequi, critiche, convalide e confutazioni, ne abbiamo selezionata una, quella che Leonardo Sciascia espresse nell’introduzione all’edizione della Storia pubblicata per i tipi di Sellerio nel 1981.

Prima di lasciare doverosamente la parola al caro maestro di Racalmuto, ci sia permesso tuttavia – non si allarmi il lettore, promettiamo di non tediarlo troppo a lungo con i nostri vaniloquî – rammentare, a noi stessi prima che ad altri, il reale svolgimento di quegli eventi che tanto attrassero l’attenzione appassionata del Manzoni.

Milano, quartiere di Porta Ticinese, 21 giugno 1630. Una giornata uggiosa, piove. Di buon mattino, due donne del popolo stanno affacciate alla finestra quando vedono, giù in strada, un uomo che cammina circospetto, vestito di nero, con un cappellaccio calcato sulla testa. Il losco figuro, badando bene di non essere visto, passa furtivamente la mano sui muri che chiudono la via. Dopo il suo passaggio, sulle pareti compaiono delle strane macchie, che le donne non riescono a distinguere bene per la distanza. L’atroce sospetto che subito le attanaglia si rivela fondato a una prima verifica: «un untore!»

Terrorizzate, avvertono subito i vicini che si riversano in strada. Dopo aver avvisato l’autorità, si danno senza ritardo a bruciare gli unguenti che insozzano i muri, passando poi della calce viva sui resti carbonizzati. Accorso sul posto, al capitano di giustizia non serve molto per farsi un’idea dell’accaduto. Partono le indagini.

In breve si giunge a un arresto. Si tratta di Guglielmo Piazza, uno dei commissarî di sanità incaricati di provvedere alla cura dell’igiene nelle pubbliche vie. Riconosciuto dalle due donne come l’untore, il Piazza viene tradotto in carcere e sottoposto a interrogatorio. Pur non confessando, egli cade presto in contraddizione. Viene quindi sottoposto a tortura, ma continua a non parlare. Per sciogliergli la lingua, i gendarmi pensano allora di offrirgli un accordo: gli verrà garantita l’impunità, purché faccia i nomi dei suoi complici. Intravvedendo una via d’uscita dalla penosa situazione, Piazza tira dentro un altro poveraccio come lui, Giangiacomo Mora.

Mora è il sospettato perfetto. Di professione barbiere, pare che nella sua bottega stia da tempo perfezionando un unguento per curare la peste che infiamma la città. Durante la perquisizione, vengono infatti ritrovati flaconi, scorte di unguento e una ricetta per prepararlo. Mora viene tratto in arresto e, sottoposto a tortura, crolla. Confessa tutto, è terrorizzato. Fa anche i nomi dei suoi presunti complici. Il confronto cui viene sottoposto con Piazza è disastroso per entrambi. Mentono, si accusano a vicenda, tirano in ballo altri malcapitati. Sono entrambi spacciati.

Il processo a loro carico può finalmente iniziare. Tutto procede spedito. I giudici valutano le prove raccolte, si consultano, non hanno dubbi (almeno alcuni di loro). La sentenza giunge inesorabile. I due sono condannati a morte, così come altri loro compari. I magistrati ordinano anche che la bottega di Mora venga data alle fiamme, perché non ne rimanga nulla. A perenne monito, si ingiunge di innalzare sulle sue ceneri una colonna, che dovrà dirsi “infame”. Su di essa dovrà inoltre essere collocata un’epigrafe:

«A PERENNE MEMORIA DEI FATTI IL SENATO COMANDÒ CHE QUESTA CASA, OFFICINA DEL DELITTO, VENISSE RASA AL SUOLO CON DIVIETO DI MAI RICOSTRUIRLA E CHE SI ERGESSE UNA COLONNA DA CHIAMARSI INFAME».

La vicenda non cade nel dimenticatoio. Sarà Pietro Verri1, fra gli altri, a incaricarsi di riesumarla negli anni Settanta del XVIII secolo in un suo scritto polemico, le “Osservazioni sulla tortura”, eleggendola a paradigma “[d]ell’ignoranza, [d]ell’oscurità delle istituzioni, [d]ell’indeterminatezza giuridica, soprattutto [d]ella possibilità concessa legalmente all’arbitrio del giudice nell’abuso della tortura”2.

Figura 2. Iscrizione posta in origine sulla “Colonna Infame”. Milano, Castello Sforzesco.

La tesi del Verri, che si inscrive nell’ampio dibattito sulla tortura che si sviluppò in tutta Europa nella seconda metà del Settecento, è che la palese ingiustizia del processo e delle sue conseguenze sia il frutto della barbarie dei tempi, della cecità delle istituzioni e del sonno della ragione che ne deriva. Nella loro primitiva ignoranza, gli uomini cadono vittime dell’arretratezza sociale e dell’irrazionalità delle strutture amministrative, figlie di un’epoca che sembra ancora sorda alla voce dei tempi nuovi, quella dei Lumi. In seguito alle polemiche di quegli anni, la tortura viene abolita nel Ducato di Milano nel 1784.

La ripresa del tema, qualche anno dopo, avverrà a opera di Alessandro Manzoni. Questi aveva preso a interessarsene sin dagli anni Venti dell’Ottocento. Una prima versione della sua “Storia della Colonna Infame” era stata pubblicata all’interno del “Fermo e Lucia” nel 1823. In seguito, tuttavia, giudicando troppo complesso l’argomento per inserirne la trattazione nel corpo del romanzo, Manzoni l’ aveva espunta dalle versioni successive. La lunga rielaborazione del trattato era infine sfociata nella sua ricollocazione, questa volta in appendice, all’interno dell’ultima versione dei Promessi Sposi del 1840-42, la cui edizione era stata curata personalmente dall’autore.

Nelle mani di Manzoni, la vicenda assumeva tutt’altra coloritura. Mentre Verri l’aveva additata come esempio dei condizionamenti oggettivi che la società esercitava sugli individui, concludendo di conseguenza che il comportamento dei giudici era stato dettato dalle specifiche contingenze storiche che l’avevano determinato, Manzoni aveva rifiutato questo approccio, preferendo indagare i profili soggettivi della responsabilità dei magistrati.

«Ci par di vedere », avrebbe scritto in seguito nell’introduzione al trattato, « la natura umana spinta invincibilmente al male da cagioni indipendenti dal suo arbitrio, e come legata in un sogno perverso e affannoso, da cui non ha mezzo per riscotersi, di cui non può nemmeno accorgersi. Ci pare irragionevole l’indegnazione che nasce in noi spontanea contro gli autori di que’ fatti, e che pur nello stesso tempo ci par nobile e santa: rimane l’orrore, e scompare la colpa; e, cercando un colpevole contro cui sdegnarsi a ragione, il pensiero si trova con raccapriccio condotto a esitare tra due bestemmie, che son due deliri: negar la Provvidenza, o accusarla »3.

L’uomo vittima dei condizionamenti dell’ambiente, irrimediabilmente legato al contesto. Un burattino in balia degli eventi. Questo, la sensibilità di Manzoni non può proprio accettarlo.

«Ma quando, nel guardar più attentamente a que’ fatti, ci si scopre un’ingiustizia che poteva esser veduta da quelli stessi che la commettevano, un trasgredir le regole ammesse anche da loro, dell’azioni opposte ai lumi che non solo c’erano al loro tempo, ma che essi medesimi, in circostanze simili, mostraron d’avere, è un sollievo il pensare che, se non seppero quello che facevano, fu per non volerlo sapere, fu per quell’ignoranza che l’uomo assume e perde a suo piacere, e non è essa una scusa, ma una colpa; e che di tali fatti si può bensì esser forzatamente vittime, ma non autori ».

Non alla barbarie dei tempi è dunque ascrivibile la responsabilità dell’accaduto. Essa ricade invece, e per intero, su chi non volle sapere, su quanti si lasciarono trascinare a “trasgredir le regole ammesse anche da loro” e lo fecero per un libero moto della volontà, su cui nulla avrebbero potuto le circostanze esterne. Alla prospettiva riformatrice del Verri si contrappone dunque quella individuale del Manzoni. Nell’una, scopo della polemica è spingere le istituzioni ad aggiornarsi, a mutare se stesse adeguandosi ai canoni della ragione illuminista. Nell’altra, è puntare il dito su quelle “passioni perverse” che, impadronitesi dell’animo dei giudici, li condussero all’esecrabile e abominevole condanna degli innocenti.

La vicenda del processo contro gli untori continuò ad appassionare storici, critici e filosofi anche nel Novecento. Le avverse posizioni, in buona sostanza, continuarono a essere quelle manifestate dai due illustri milanesi.

Benedetto Croce criticò severamente la prospettiva manzoniana, della quale esecrò il presupposto morale e il conseguente travisamento dell’autenticità storica dei fatti: «noi interroghiamo la storia, specie quando sia alquanto remota da noi, non per discernere e misurare la bontà morale e le debolezze di uomini che sono morti, ma per intendere l’opera che essi attuarono attraverso le loro virtù e i loro vizi, opera che opera in noi e sollecita il nostro pensiero e la nostra azione. […] L’interesse morale in lui [Manzoni] ha soverchiato l’interesse storico e, peggio ancora, sviato il giudizio»4.

Fortemente critico nei riguardi dell’approccio manzoniano era stato poi anche il saggio di Fausto Nicolini “Peste e untori nei Promessi Sposi e nella realtà storica”, pubblicato nel 1937. I giudici erano persone stimate, aveva sostenuto Nicolini, i presunti rei probabilmente criminali, dunque è illogico voler affermare, come fa il Manzoni, che i magistrati possano aver agito abusando delle leggi. Piuttosto, essi le avranno applicate nella misura richiesta dai tempi e dalle circostanze, e così facendo si comportarono in modo ineccepibile. Nell’idea di Nicolini, e questo è il fulcro della sua polemica, Manzoni avrebbe peccato di antistoricismo, rendendosi colpevole dell’ errore che gli era già stato imputato da Croce.

Nel 1981, la casa editrice Sellerio pubblicò una nuova edizione della “Storia della Colonna Infame”. Nell’introduzione, curata da Leonardo Sciascia, lo scrittore di Racalmuto tornò ancora sulla questione, criticando aspramente lo scritto di Nicolini e rivalutando definitivamente l’approccio manzoniano.

«Più vicini che all’illuminista ci sentiamo oggi al cattolico. Pietro Verri guarda all’oscurità dei tempi e alle tremende istituzioni; Manzoni alle responsabilità individuali. La giustezza della visione manzoniana possiamo verificarla stabilendo una analogia tra i campi di sterminio nazisti e i processi contro gli untori, i supplizi, la morte. Quando il Nicolini […] dice che “l’istruttoria venne delegata a un Monti e a un Visconti, ch’è quanto dire a uomini di cui tutta Milano venerava l’integrità, l’illibatezza, l’ingegno, l’amore pel bene pubblico, lo spirito di sacrificio e il grande coraggio civile”, coraggio civile a parte, e cioè in meno, viene da pensare a quel libro di Charles Rohmer, “L’altro”, che è quanto di più terribile ci sia rimasto nella memoria e nella coscienza di tutta la letteratura sugli orrori nazisti pubblicata dal 1945 in poi: “una dimostrazione per assurdo, in cui è proprio la parte di umanità rimasta nei burocrati del Male, la loro capacità di sentire ed agire come tutti noi, a dare l’esatta misura della loro negatività” […]. Non si accorge, il Nicolini, che quel di cui c’è da tremare è appunto questo: che quei giudici erano onesti e intelligenti quanto gli aguzzini di Rohmer erano buoni padri di famiglia, sentimentali, amanti della musica, rispettosi degli animali. Quei giudici furono “burocrati del Male”: e sapendo di farlo»5.

«E qui ci par di capire che la tesi del Verri », prosegue Sciascia, « vien liquidata in nome del più pedante storicismo; per il fatto che c’erano, l’oscurità delle menti e la tortura nelle istituzioni, non potevano non esserci – e prendersela con quegli uomini, con quelle istituzioni, è come prendersela con un fatto di natura, un terremoto, un nubifragio. Non tiene per nulla in conto, il Nicolini, che il Verri faceva una battaglia; una battaglia che ancora oggi va combattuta: contro uomini come quelli, contro istituzioni come quelle. Poiché il passato, il suo errore, il suo male, non è mai passato: e dobbiamo continuamente viverlo e giudicarlo nel presente, se vogliamo essere davvero storicisti. Il passato che non c’è più – l’istituto della tortura abolito, il fascismo come passeggera febbre di vaccinazione – s’appartiene a uno storicismo di profonda malafede se non di profonda stupidità. La tortura c’è ancora. E il fascismo c’è sempre»6.

Se la Storia ha un senso, nelle parole di Sciascia, questo risiede proprio nel suo continuo ammonimento rivolto alle generazioni future. La responsabilità personale per i gesti di ciascuno non può mai essere obliterata dal comodo riparo delle circostanze, dall’oscuro rifugio dei contesti. Ciascuno di noi è chiamato in ogni momento a rispondere di fronte al più severo dei tribunali, quello della propria coscienza. E la coscienza va oltre la Storia. La impregna tutta del proprio essere, la determina, e non ne è determinata.

«Veramente », concluderebbe Manzoni, « sarebbe una singolar giustificazione d’una cosa, il far vedere che, oltre all’essere assurda in ogni caso, ha potuto in qualche caso speciale servir di strumento alle passioni, per commettere fatti assurdissimi e atrocissimi»7. E riteniamo che non ci sia modo migliore di concludere.

 

Filippo Innocenti, 22 maggio 2020, Pubblicato su Il Sestante il 21 e 22 aprile 2020

 

1. Patrizio milanese, economista e letterato di chiara fama, fu uno dei maggiori rappresentanti dell’Illuminismo in Italia. Cfr. A. De Francesco, voce “Verri, Pietro” in “Il Contributo italiano alla storia del Pensiero: Storia e Politica”, Treccani, 2013, consultabile qui: https://bit.ly/34sdxXO.
2. Filippo Grendene. «Quel desiderio sempre crescente». Intertestualità e ri-usi della Colonna infame nel Novecento. Enthymema, XV: 55,  2016, consultabile qui: https://bit.ly/2xY0kKu.
3. Alessandro Manzoni. Storia della Colonna Infame, introduzione, cit. in S. Guglielmino – H. Grosser, “Il sistema letterario”, Milano, Principato, 1996, vol. 2, tomo II, pag. 546.

4. Benedetto Croce. Alessandro Manzoni, Bari, Laterza, 1952, pp. 38-39, cit. in Filippo. Grendene, cit. 
5. Leonardo Sciascia. Introduzione alla “Storia della colonna infame”, ed. Sellerio 1981 [rielaborazione di uno scritto del 1973]. 
6. Ibid.
7. Alessandro Manzoni. Storia della Colonna Infame, introduzione, cit. in S. Guglielmino – H. Grosser, “Il sistema letterario” cit., pag. 547.

 

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