Lettura sul Socialismo

Inquadramento generale – Definizione dei diritti – Il prodromo del Luddismo – Il socialismo utopistico – Il socialismo pragmatico – Il socialismo materialistico – La socialdemocrazia – Il fabianesimo – Il socialismo liberale – La crisi del socialismo europeo

Giuseppe Pellizza da Volpedo. Il quarto stato. 1901.
Giuseppe Pellizza. Il quarto stato, 1901.

Proporre una lettura sul socialismo è un tentativo veramente improbo per la vastità del materiale documentario e per l’ampiezza della riflessione critica sull’argomento. Quindi in via preliminare converrà definirne i limiti. Innanzitutto si è ritenuto di mantenersi sul piano delle idee senza entrare nella storia degli avvenimenti se non limitatamente e in relazione alle vicende che hanno determinato un momento di svolta dal punto di vista dell’elaborazione teorica. In secondo luogo si è voluta dedicare attenzione pressoché esclusiva al pensiero che nel corso del tempo assumerà l’accezione socialista e che, a differenza delle tradizioni contigue (il comunismo e l’anarchia), può essere considerato uno degli elementi costitutivi delle democrazie liberali. Infine si è deciso di procedere attraverso la definizione delle idee, così come esse sono sorte e senza seguirne gli sviluppi ulteriori, una semplificazione che certamente non consente di esplorare la complessità del tema ma che ha il pregio di favorire la visione di insieme. Il risultato finale è stato una sorta di “Fondamenti di storia del pensiero socialista” che, senza alcuna pretesa di completezza, si propone come una lettura sintetica, agile e fruibile. Approfondimenti ulteriori su temi specifici saranno pubblicati in altra parte del sito. 

INQUADRAMENTO  GENERALE

All’inizio di un percorso di lettura è fondamentale definire l’oggetto di studio non solo nei termini in cui esso è sorto ma anche nei passaggi ulteriori maturati nel corso del tempo. Innanzitutto nell’iter proposto non sono incluse tutte quelle concezioni laiche o religiose che in età antica, nel Medioevo o comunque in epoca antecedente lo sviluppo industriale predicavano l’uguaglianza totale e/o la comunione dei beni.

Invece si farà riferimento a quel socialismo che nasce nel contesto della rivoluzione industriale dell’Ottocento e che, per usare la definizione di Bobbio1, si basa su una idea di uguaglianza “sostanziale” (la pari distribuzione dei beni) molto diversa da quella considerata “formale” in quanto limitata ai soli diritti (fondamentali, politici, sociali). Si può aggiungere che sul piano teorico l’uguaglianza sostanziale presupponeva, nella generalità dei casi, la collettivizzazione della società e dei mezzi di produzione (sottoforma di statalizzazione o di autogestione).

Nel corso del tempo la componente propriamente socialista ha acquisito una sua autonomia teorica ricusando espressamente l’uguaglianza sostanziale per approdare ad una concezione più propriamente democratica nella quale l’uguaglianza formale viene estesa ai diritti sociali, peraltro intesi in senso molto ampio. Di conseguenza si rinunciò alla socializzazione dei mezzi di produzione per adottare la redistribuzione del reddito e lo Stato sociale come strumenti idonei a ridurre la disuguaglianza sociale, a garantire i diritti sociali, ad assicurare le pari opportunità.

DEFINIZIONE  DEI  DIRITTI

Se la distinzione tra liberalismo, democrazia e socialismo riguarda i diritti riconosciuti, occorre allora definire questi con maggiore precisione. Lo schema rappresentato nella figura sottostante fa riferimento alla classica tripartizione dei diritti proposta da Thomas Humphrey Marshall nel 19502.

02 Bersaglio_2 Si tratta di una semplificazione estrema, utile tuttavia utile ai fini del percorso di lettura che si intende seguire. In realtà non c’è una soluzione di continuità tra diritti fondamentali e diritti politici, quindi tra liberalismo e democrazia. Analogamente nessuna frattura netta divide i diritti politici da quelli sociali, quindi la democrazia dal socialismo.

Le liberaldemocrazie occidentali sono sistemi di governo basati sui principi di libertà ed uguaglianza. Il nucleo iniziale è costituito dai diritti fondamentali di matrice liberale in quanto fanno riferimento ad una concezione negativa della libertà. Su di esso si stratificano i diritti politici di ispirazione democratica in quanto espressione di una concezione di una libertà negativa comunque molto diversa da quella liberale. Infine si sovrappongono i diritti sociali di derivazione socialista che fanno riferimento alle libertà positive.

Nella concezione liberale si ammette l’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte ad alcuni diritti fondamentali considerati inviolabili e irrinunciabili e dunque non suscettibili di compressione da parte dello Stato. Inizialmente, in epoca mercantile, questi diritti erano essenzialmente due: la libertà di iniziativa privata e quella religiosa.  Ambedue sono espressione di una concezione negativa della libertà nella quale prevale la necessità di proteggere l’individuo dall’interferenza dello Stato.

Dichiarazione d'indipendenza americana. 4 Luglio 1776.
Dichiarazione d’indipendenza americana, 4 Luglio 1776.

Con la dichiarazione d’indipendenza americana (1776) e con la dichiarazione della rivoluzione francese (1789) si affermano i diritti democratici con l’uguaglianza che si amplia ai diritti politici. Questi possono essere considerati democratici, e segnatamente repubblicani, in quanto innanzitutto esprimono una concezione della libertà che è sì negativa ma molto  diversa da quella liberale perché intesa come assenza di ogni forma di dipendenza3. Il diritto di voto e di resistenza all’oppressione, presenti sia nella dichiarazione americana che in quella francese, appartengono a questa categoria. Ma già nella elaborazione di alcuni pensatori democratici dell’Ottocento, ad esempio in Giuseppe Mazzini, i diritti politici si ampliano a comprendere il diritto di associazione, di espressione, al lavoro, all’istruzione pur conservando l’accezione negativa di liberazione da ogni forma di servitù4.

Dichiarazione dei diritti dell'Uomo e del Cittadino. 1789.
Dichiarazione dei diritti dell’Uomo e del Cittadino, 1789.

Le libertà positive si affermano ulteriormente nel secondo dopoguerra con l’avvento dei diritti sociali ed economici sostenuti dalle socialdemocrazie europee. In alcuni di questi diritti si rovescia il rapporto tra lo Stato e l’individuo. Lo Stato non solo non deve interferire (nella concezione liberale) e non solo non deve poter interferire (nella concezione repubblicana) ma deve intervenire attivamente per promuovere l’uguaglianza sociale. A questa categoria di diritti appartengono il diritto al lavoro, di sciopero, ad un’equa retribuzione, alla salute.

I diritti civili, politici e sociali sono rappresentati in linea di principio in tutte le costituzioni dei Paesi di democrazia occidentale. Oggi la discussione non riguarda più quali diritti riconoscere ma semmai il modo ed il quantum della tutela.

IL PRODROMO DEL LUDDISMO

Il Luddismo esplose nell’Inghilterra degli anni 1810 come movimento di lotta che si opponeva, anche violentemente, all’innovazione tecnologica 05 Luddismodella produzione industriale cui veniva attribuita la riduzione dei salari e l’impoverimento generale. Alle rivendicazioni economiche seguirono anche quelle politiche ed in particolare quella relativa al diritto di voto. Nel luddismo mancò un’analisi adeguata della realtà: la crisi economica che aveva investito l’Inghilterra nasceva da un’annata di cattivi raccolti e dal blocco continentale imposto da Napoleone.

Una sintesi della vicenda luddista, a cura di Alessandro Pavarin, è fruibile on line nel Dizionario di Economia e Finanza dell’Enciclopedia Treccani5.

Sul luddismo una prima riflessione critica si trova già nel celebre discorso che Lord Byron pronunciò al Parlamento inglese il 27 Febbraio 1812 in opposizione alla legge che introduceva la pena di morte per la distruzione delle macchine industriali6. Un discorso appassionato dal quale emerge un’analisi della crisi economica dell’Inghilterra (le guerre con la Francia) e della inadeguatezza della classe dirigente britannica a fronteggiare il momento. Sostanziale la difesa delle ragioni luddiste oltre la condanna degli episodi di violenza che comunque, precisava Byron, non avevano comportato fatti di sangue. Impietosa la denuncia di una miseria che in Inghilterra aveva raggiunto livelli insostenibili e superiori persino alla Turchia.

IL SOCIALISMO UTOPISTICO

Il socialismo utopistico nasce e si sviluppa in Francia, a partire dal 1820 circa,  avendo come termine di riferimento (positivo o negativo) la rivoluzione del 1789. La definizione di “utopistico” è dello stesso Karl Marx che così intendeva marcare la differenza con il suo socialismo che egli giudicava scientifico e materialistico.

All’interno del socialismo utopistico si è soliti distinguere due linee di tendenza che riflettono la diversa interpretazione degli avvenimenti della rivoluzione francese ed esprimono nel contempo un differente approccio al nesso tra teoria e prassi7.

Da una parte si collocano coloro che rifiutano l’esperienza rivoluzionaria giudicandola inadeguata e puntano sul progresso civile, culturale e scientifico come strumento idoneo a migliorare le condizioni materiali e morali dei poveri in generale e dei lavoratori in particolare. Appartengono a questo schieramento Claude Henry de Saint-Simon, François Marie Charles Fourier, Louis Jean Joseph Charles Blanc, Etienne Cabet, Pierre Joseph Proudhon.

Su un altro versante si colloca l’ala radicale del socialismo utopistico nella quale prevale la convinzione che la rivoluzione del 1789 fosse fallita per la sua inadeguatezza organizzativa. I principali esponenti di questo filone sono Louis Auguste Blanqui, Filippo Buonarroti, François Noël Babeuf. Sostenitori del principio egualitario, che nella loro elaborazione assumeva la forma del comunismo dei beni, privilegiano l’azione cospirativa ed insurrezionale.

Dunque, già nell’ambito del socialismo pre-marxista e non marxista sembrano riconoscersi le due tendenze che segneranno la storia del movimento socialista: l’approccio moderato ma già di matrice socialista e l’opzione rivoluzionaria già comunista (come si definivano i seguaci di Babeuf e Buonarroti ben prima che il termine fosse utilizzato da Marx).

Pierre Joseph Proudhon e i suoi figli. Dipinto di Gustave Courbet, 1865.
Pierre Joseph Proudhon e i suoi figli. Dipinto di Gustave Courbet, 1865.

Si è detto che il socialismo utopistico nella versione moderata si caratterizza per il rifiuto del metodo rivoluzionario. Saint-Simon propone la cooperazione tra gli operai e le altre diventa totale nel momento stesso afferma che il libero mercato implichi necessariamente la schiavitù del salariato. In Fourier la critica al capitalismo diventa totale nel momento stesso afferma che il libero mercato implichi necessariamente la schiavitù del salariato. Per questo Fourier propone una ristrutturazione completa della società che doveva essere fondata su nuclei associativi di base intorno ai quali “stratificare l’ampio edificio di una società nella quale fossero in comune i benefici sociali, e comune il lavoro, ma diversa, secondo gli apporti, la retribuzione”8. Ma nell’ambito del socialismo utopistico il pensatore più influente fu senz’altro Pierre Joseph Proudhon il quale, per primo, mise in discussione la legittimazione della proprietà privata che per sua natura era fonte di privilegio e causa di dispotismo e non riconosceva nessun fondamento metafisico, giusnaturalistico o idealistico. Il suo modello era basato su alcuni principi fondamentali: –  Possesso e proprietà. La critica radicale alla proprietà è in Proudhon strettamente legata alle diverse forme di legittimazione che nel corso della storia la hanno reso abusiva. E’ in questo contesto che deve essere interpretata la celebra frase “la proprietà è un furto”. Ma Proudhon non è contrario in linea di principio alla proprietà ed anzi ne giudica legittime alcune forme (l’esempio più chiaro è la proprietà di un bene che lo stesso individuo ha prodotto)9.  Per quanto riguarda i mezzi di produzione invece egli tende a sostituire la proprietà con il possesso da parte delle associazioni dei lavoratori. – Mutualismo. Al comunismo foriero di iniquità e miseria Proudhon opponeva una visione della società fondata su un principio mutualistico riassumibile nella frase “da ciascuno secondo le sue facoltà, a ciascuno secondo i suoi bisogni10.

Il testo che ha reso celebre Proudhon fu pubblicato nel 1840 con il titolo “Qu’est-ce que la propriété?”. La traduzione italiana dell’opera, completa degli ampliamenti apportati dall’autore e pubblicata nel 1844 con il titolo “Trattato del dominio di proprietà11, è fruibile gratuitamente on line. E’ altresì disponibile on line il testo pubblicato postumo nel 1866 “Critica della proprietà e dello stato12.

IL  SOCIALISMO  PRAGMATICO

Mentre in Francia nasceva il socialismo utopistico, parallelamente in Gran Bretagna si affermava un tipo di socialismo definito pragmatico13.  Ne era ispiratore Robert Owen, sostenitore della tesi che lo sviluppo industriale doveva essere sottoposto ad un rigido controllo nell’ambito non solo delle condizioni di lavoro ma delle stesse condizioni di vita. In Inghilterra, nell’opificio di cui era comproprietario, attuò iniziative avanzate che anticipano di decine d’anni la successiva legislazione (tra l’altro aveva organizzato asili d’infanzia per i figli degli operai). Nonostante il successo ottenuto, le sue idee non riuscirono a diffondersi e, sfiduciato, Owen emigrò negli USA dove tentò di edificare un modello di comunità, la New Armony, dapprima agricola e poi industriale, nella quale era abolito il profitto e vigeva un sistema di scambio dei prodotti basati sul loro valore. Il suo tentativo fallì e Owen rientrò in Inghilterra dove costituì la prima organizzazione sindacale.

F. Bate, New_Harmony, 1838
F. Bate, New Harmony, 1838.

L’opera di Owen influenzò fortemente la nascita e lo sviluppo del cartismo e risultò decisiva per la nascita delle prime associazioni sindacali, le Trade Unions. Il cartismo sorse nel 1838 e prese il nome dalla “Carta del popolo”, il documento con il quale venivano poste al Parlamento inglese richieste di carattere prevalentemente politico, tra le quali il suffragio universale (maschile). In una fase successiva il movimento assunse connotati più dichiaratamente “socialisti” affermando il diritto al lavoro e spingendosi sino alla proposta della socializzazione della terra e dei mezzi di produzione. Sull’onda dei moti quarantotteschi il movimento cartista promosse una manifestazione che non ebbe successo e segnò la sua fine.

IL  SOCIALISMO  MATERIALISTICO

Con Karl Marx e Friedich Engels nasce il socialismo da loro stessi definito scientifico e materialistico. Scientifico in quanto basato su un’analisi rigorosa dei rapporti economici. Materialistico in quanto ribaltava i termini tradizionali della dialettica idealistica di Hegel (il concreto è la manifestazione dell’astratto) per approdare ad un’interpretazione materialistica della Storia. Il pensiero di Marx condizionerà la storia del movimento socialista le cui diverse anime si distingueranno (e si divideranno) proprio in relazione all’ancoraggio o all’emancipazione dalle sue analisi e dalle sue soluzioni.

La sintesi che segue è tratta perlopiù da un fonte, “Il materialismo storico nel pensiero di K. Marx14, liberamente accessibile sul web, che si è rivelata straordinariamente ricca di contenuti e rigorosamente coerente nel percorso.

Hans Mocznay. Marx giovane a colloquio con operai di Parigi, 1844.
Hans Mocznay. Marx giovane a colloquio con operai di Parigi, 1844.

Marx riteneva che l’idealismo hegeliano fosse fallace sul piano metodologico e conservatore sotto il profilo politico nel momento stesso in cui giudicava la realtà esistente come una manifestazione necessaria e quindi razionale dello Spirito. L’idealismo hegeliano tradizionale finiva così per giustificare come razionali le istituzioni del tempo assecondandone il contenuto intrinsecamente reazionario.

Marx muove invece da una critica radicale dello stato liberale emerso come modello vincente dopo la rivoluzione francese. Affermare la libertà individuale, di cui la proprietà privata era l’aspetto preminente, significava di fatto estraniare i singoli dalla società generando un conflitto irrisolvibile tra l’interesse degli individui e quelli della comunità di appartenenza. In contrapposizione netta con la libertà negativa del liberalismo, Marx concepiva una libertà positiva nella quale la libertà dell’individuo si identifica con quella dell’intera società. Non una sommatoria di libertà individuali ma una identificazione della libertà di ciascuno con quella di tutti.

Da qui la necessità di eliminare ciò che è causa di conflitto tra l’individuo e la società ed è al contempo la fonte della disuguaglianza, la proprietà privata, per affermare un’eguaglianza non formale (riconoscimento dei diritti) ma sostanziale (la distribuzione dei beni). Si comprende allora come Marx identifichi nel proletariato, che non possiede altri beni se non la propria prole, la classe sociale deputata alla rivoluzione egalitaria e libertaria.

Il proletariato inoltre è la classe sociale sulla quale si concentrano tutti processi di alienazione della  società moderna che è capitalistica, borghese e liberale. Con la propria attività l’operaio produce un bene che non gli appartiene; persegue un fine, il profitto, che non è il suo; compie un lavoro forzato, non creativo perché non scelto liberamente; entra oggettivamente in conflitto con l’altro. La causa di questa alienazione è la proprietà privata dei mezzi di produzione.

Il lavoro, inteso come attività finalizzata a generare i mezzi della propria sussistenza, è l’elemento caratterizzante dell’uomo. Esso si compone di due aspetti: le forze produttive (gli uomini, i mezzi di produzione, le conoscenze tecnologiche) ed i rapporti di produzione ovvero i meccanismi che regolano uso e proprietà dei mezzi di lavoro e che determinano la distribuzione dei beni prodotti. I rapporti di produzione sono la struttura della società perché ne costituiscono il meccanismo decisivo di funzionamento. Al contrario le ideologie politiche, la religione, le teorie giuridiche non sono prodotti autonomi della coscienza umana ma una sovrastruttura in quanto mere espressioni dei rapporti che definiscono la struttura sociale  in un dato momento della storia. Non sono le leggi o le teorie o lo stesso Stato a determinare la struttura economica della società ma l’esatto contrario.

Quello della forza lavoro e dei rapporti di produzione non è solo un criterio di analisi della realtà attuale ma diventa la chiave di lettura della storia. In particolare gli eventi storici sono determinati dal conflitto tra forze produttive moderne (in quanto corrispondenti alle nuove necessità economiche) e rapporti di produzione antiquati (in quanto ancorati all’interesse delle vecchie classi dominanti). In sostanza lo sviluppo storico è determinato dal conflitto insanabile tra il sistema di produzione (le forze produttive) ed il sistema di appropriazione (determinato dai rapporti produttivi). Quando tale conflitto giunge a maturazione, le forze produttive in ascesa riescono a rompere i vecchi rapporti di produzione e allora si verifica l’evento storico.

Manifesto del Partito Comunista, Londra, 1848
Manifesto del Partito Comunista, Londra, 1848.

Risulta quindi inevitabile lo scontro tra classi, quella in ascesa che esprime un nuovo modo di produrre e quella dominante ma legata ai vecchi rapporti di produzione. L’esito dello scontro è uno e uno solo: la vittoria della nuova classe sociale, più adatta alle nuove esigenze produttive, che riuscirà ad imporre il proprio modo di produrre e di distribuire i beni. Il capitalismo, secondo Marx, vive l’insanabile contraddizione tra forze di produzione collettive e rapporti di produzione di tipo privatistico. Nelle fabbriche il lavoro è divenuto collettivo richiedendo un’organizzazione complessa di diverse figure (operai, tecnici, dirigenti) mentre il profitto rimane privato. Ma se la produzione della ricchezza è collettiva, allora anche la distribuzione della ricchezza deve essere collettiva. In sostanza il capitalismo tende ad evolversi per via naturale nel socialismo (in Marx inteso veramente nel senso dell’uguaglianza sostanziale). Questa conclusione può portare a considerare come ineluttabile l’avvento del socialismo.

Ma in realtà nella visione di Marx non c’è nulla di fatalistico perché la storia origina dallo scontro di classe a determinare il quale contribuiscono due fattori. Da un lato, si è detto, la contraddizione irriducibile tra i lavoratori che esprimono le nuove forze produttive ed i capitalisti  che rappresentano i vecchi rapporti di produzione. Dall’altro lo sfruttamento subito dai lavoratori.

Quest’ultimo concetto scaturisce dall’analisi dei rapporti economici. Il valore economico della merce (il prezzo) è dato da diverse componenti tra le quali il valore d’uso (l’oggetto deve essere utile), il valore di scambio (l’oggetto deve poter essere venduto), il valore di mercato (che dipende dall’abbondanza o scarsità della merce). Per Marx, come per gli economisti classici, l’elemento decisivo è il valore di scambio che si identifica con la quantità di lavoro socialmente necessario a produrre la merce. Più lavoro serve a produrre un oggetto, maggiore sarà il suo valore.

11 Kapital_titel_bd1Il profitto nasce dal remunerare la forza lavoro, gli operai, con un salario inferiore alla ricchezza prodotta. Questa differenza rappresenta il plus-valore. La quantità di lavoro che eccede il valore del salario è il plus-lavoro. In sostanza il profitto nasce dal plus-lavoro degli operai che garantisce il plus-valore delle merci. In realtà il discorso di Marx sul profitto è più complesso perché tiene conto anche dell’investimento operato dal capitalista per acquistare e ammodernare i mezzi di produzione. Rimane il fatto che la componente decisiva del profitto è costituita dal plus-lavoro. Essendo il sistema capitalistico basato sulla logica del profitto privato, è nel suo interesse ottenere il massimo del plus-valore attraverso vari strumenti, il principale dei quali è un incremento della produttività. Questa può essere ottenuta con un aumento dell’orario di lavoro. Ma oltre un certo limite la produttività dell’operaio inizia a declinare. Invece lo strumento più efficiente è la meccanizzazione-automazione del processo produttivo. La meccanizzazione non solo è causa di spersonalizzazione del lavoro e di ulteriore alienazione ma, riducendo la fatica lavorativa, consente l’utilizzo di donne e bambini a salario ancora inferiore.

L’aumento a dismisura della produttività genera un fenomeno nuovo costituito dalle crisi periodiche legate ad una sovrapproduzione che fa crollare i profitti, determina fallimenti, genera disoccupazione. Un fenomeno completamente diverso dalle crisi da scarsità di merci (le carestie) che avevano caratterizzato i secoli precedenti. Inoltre la meccanizzazione esasperata riduce l’importanza del lavoro operaio che è la fonte del plus-valore e del profitto. Ne consegue un sistema dai rendimenti decrescenti che innesca un conflitto all’interno della società capitalistica destinato a concludersi con l’emergere di grandi monopoli, la concentrazione della ricchezza nelle mani di pochissimi, lo sfruttamento di una massa enorme di persone.

Alla base di tutto questo vi è la logica privatistica del sistema capitalistico. Già nel Manifesto del Partito Comunista15, pubblicato nel 1848, Marx ed Engels delineano i tratti essenziali dell’agire politico e, a differenza del socialismo utopistico, affermano esplicitamente e con chiarezza la necessità di abolire la proprietà privata (borghese) per sostituirla con la proprietà collettiva (proletaria). Alla collettivizzazione della proprietà corrisponde quella dell’intera società con l’esaurimento dei rapporti familiari di tipo borghese, l’abolizione dell’educazione e dell’istruzione di classe, l’eliminazione della cultura borghese. Nel marxismo la collettivizzazione assume la forma della centralizzazione nelle mani dello Stato (e non certo dell’autogestione come per alcune correnti del socialismo utopistico). La conquista rivoluzionaria del potere e l’esercizio di una dittatura del proletariato si rendono necessari ai fini di una destrutturazione completa della società capitalistica che prepari l’avvento del comunismo e della società senza classi.

L’atto di nascita del socialismo materialistico è la pubblicazione del Manifesto del partito comunista, scritto su incarico della Lega dei comunisti durante i moti del 1848 in Germania. Ulteriori decisivi passaggi saranno la prima e la seconda Internazionale. La prima Internazionale segna l’incontro del marxismo con il composito movimento operaio europeo nel quale confluivano correnti democratiche, socialiste, anarchiche. Il marxismo riuscirà ad assumere la leadership culturale e  politica ripulendo il campo dalle altre componenti. La seconda Internazionale sancisce  invece la fine dell’ortodossia marxista e l’emergere dei riformi e dei revisionismi socialdemocratici.

LA  SOCIALDEMOCRAZIA

La socialdemocrazia nasce come variante riformista del marxismo ma negli anni successivi si sviluppa dapprima come mutazione revisionista e poi come emancipazione definitiva dal materialismo storico. Nel linguaggio di allora e di oggi si intende per riformismo un metodo politico che rigetta la prassi rivoluzionaria a favore di una gradualità riformista.  Il termine revisionismo stava e sta ad indicare che sul piano ideologico si apportano modificazioni sostanziali dell’ortodossia marxista.

Bandiera di uno dei primi partiti socialisti tedeschi
Bandiera di uno dei primi partiti socialisti tedeschi

Negli ultimi decenni dell’Ottocento sorgono in Europa diversi partiti che assumono la denominazione di “socialdemocratici”. In questa fase il termine indica ancora la precisa volontà di andare oltre la democrazia politica per approdare ad una democrazia sociale di tipo marxista. E’ in questi termini che nel 1875 nasce in Germania il primo partito che di lì a poco assumerà la denominazione di socialdemocratico ed a questa tradizione che appartengono August Bebel (1840-1913), Wilhelm Liebknecht (1826-1900), Karl Kautsky (1854-1938). A loro comunque si può far risalire la nascita del riformismo che, pur riconoscendo il fine ultimo di una società senza classi, intanto persegue obiettivi concreti (dalla riduzione dell’orario di lavoro al suffragio universale) attraverso gli strumenti tradizionali della politica. Così nel congresso di Erfurt (1891) la socialdemocrazia tedesca approvava un programma massimo, sull’obiettivo finale del socialismo, scritto da Kautsky,  ed un programma minimo di rivendicazioni sociali ed economiche elaborato da Bernstein.

Ben presto comunque, all’interno della stessa Seconda Internazionale (1889-1914), inizia ad emergere una vera corrente revisionista  che contesta il marxismo non solo sul piano del metodo ma anche e soprattutto sotto il profilo dell’analisi teorica. Ne sono esponenti, insieme ad altri,  Eduard Bernstein (1850-1932) e Max Adler (1873-1937).

Eduard Bernstein
Eduard Bernstein

Nel 1899 Bernstein raccoglie le critiche di altri autori e sistematizza la sua critica al marxismo ne “I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia”, un testo con il quale rigetta la scientificità del marxismo, propone il socialismo come ideale etico e come fine cui tendere anche se irraggiungibile, afferma il primato della volontà sul determinismo che si era diffuso nel movimento: la storia non è espressione asettica di meccanismi sociali talora imperscrutabili ma la conseguenza della volontà e dei desideri degli uomini16. Corposo l’elenco delle previsioni fallite da Marx soprattutto in relazione alla grave crisi economica che aveva investito l’Europa a partire dal 1873. Per alcuni la grave depressione di quegli anni era la dimostrazione delle insanabili contraddizioni interne del sistema capitalistico e preludeva al suo crollo, esattamente come preconizzato da Marx. In realtà il sistema capitalistico aveva mostrato una grande capacità di adattamento e di rinnovamento e la crisi si andava risolvendo in maniera completamente diversa da quanto previsto nel socialismo scientifico: non si era verificata la concentrazione industriale mentre si assisteva ad una crescita delle piccole e medie imprese; non si era avuta la concentrazione di capitali ma anzi lo sviluppo delle società per azione aveva consentito la nascita di un’ampia classe di imprenditori; i ceti medi non si erano impoveriti al punto da proletarizzarsi ma anzi avevano conservato il loro tenore di vita; lo stesso proletariato non aveva subito l’impoverimento progressivo. In buona sostanza non si era realizzata la polarizzazione della società in due grandi classi (capitalisti e proletari) che era il fondamento della lotta di classe e del crollo del capitalismo.

Partendo da queste osservazioni Bernstein proponeva l’abbandono del metodo rivoluzionario e l’adozione di una politica riformista da realizzare anche attraverso l’alleanza con i settori più avanzati della borghesia. Nella sua concezione lo Stato continuava però ad assolvere una funzione centrale come garante del controllo sociale sul sistema economico.

Non mancarono le obiezioni a Bernstein né da parte di Kautsky, sul versante di un riformismo comunque fortemente ancorato all’ideologia marxista, né da parte della Luxemburg, sul versante del rivoluzionarismo marxista ortodosso cui apportò significativi contributi.

La Luxemburg in particolare introduce nel dibattito di quegli anni il concetto di imperialismo e ne identifica i caratteri essenziali17: l’emergere dei monopoli come conseguenza della concentrazione  della produzione e dei capitali; la nascita di un’oligarchia finanziaria come effetto dell’incontro del capitale industriale con quello bancario e con la conseguenza che l’esportazione dei capitali diventa preminente su quella delle merci;  la suddivisone del mondo fra le potenze capitalistiche e finanziarie. In questo contesto la politica riformista appare velleitaria e inconcludente. L’elaborazione della Luxemburg appartiene più propriamente alla tradizione che assumerà poi la denominazione di “comunista”. Intanto una componente socialista, riformista e/o revisionista, si andava delineando ed iniziava il suo lungo percorso.

Critica Sociale. 1891
Critica Sociale, 1891.

Il dibattito interno alla socialdemocrazia tedesca influenzò l’intero socialismo europeo. Importanti i riflessi sul movimento operaio in Italia così come essi emergono dalla rilettura della Critica Sociale18. Turati, che rifiutava la critica al marxismo proveniente da ambienti intellettuali esterni (Merlino, Sorel), seguì invece con grande attenzione la discussione in corso accogliendo ora gli elementi del riformismo marxista ora quelli del revisionismo esplicito, a testimoniare la fatica della riflessione che impegnò il movimento socialista europeo sulla scia del dibattito in Germania.

Il nesso attorno al quale ruotava il dibattito era sempre lo stesso ovvero il rapporto tra socialismo e democrazia visto sotto una duplice prospettiva: il dualismo rivoluzione/riformismo ed il confronto  ortodossia/revisionismo. Lo stesso Antonio Labriola riconobbe, in una fase iniziale, che le tesi di Bernstein potevano rappresentare un utile fattore di sviluppo del marxismo. La sua originale elaborazione del marxismo lo porterà verso altri approdi.

Turati invece sembra risolvere tutti i conflitti teorici sul piano strettamente politico muovendosi decisamente verso l’incontro con le altre classi sociali, l’alleanza con repubblicani e radicali e il dialogo con la sinistra giolittiana, in ciò trovando conforto in analoghe scelte che, pur tra mille travagli, erano infine state compiute dalla socialdemocrazia tedesca.

Lo scontro tra radicalismo e riformismo, tra ortodossia marxista e revisionismo, caratterizzerà a lungo la storia del movimento socialista, almeno sino alla Rivoluzione di Ottobre che segnerà la frattura e poi la rottura tra l’anima comunista e quella socialista. Nel 1919 nasce la Terza Internazionale, ormai solo comunista, sotto la guida del partito bolscevico sovietico. Nel 1921 ci sarà la scissione di Livorno e la nascita del Partito comunista italiano.

Così con la rivoluzione sovietica e la nascita dei partiti comunisti, il termine socialismo indicherà con chiarezza quella parte del movimento operaio che rifiuta il metodo rivoluzionario (e l’esperienza sovietica) per adottare i principi delle democrazie liberali. Ma il cammino è ancora lungo, ancora faticoso nel suo rapporto con le radici marxiste, ancora tormentato nel suo cammino revisionista. Accettata la democrazia liberale si poneva la questione di una elaborazione teorica nel campo sociale ed economico che fosse autonoma e completamente emancipata dal marxismo. L’occasione fu la crisi del 1929, la risposta keynesiana, il New deal roosveltiano.

Nel 1932 la socialdemocrazia svedese metteva in atto un vasto programma di intervento pubblico nell’economia, al costo di un deficit di bilancio considerevole, destinato a stimolare la domanda e a riassorbire la disoccupazione. Nell’impostazione di questa politica la visione keynesiana si coniugava con l’elaborazione autonoma della scuola economica di Stoccolma. “In particolare E. Wigforss aveva dimostrato la necessità dell’intervento dello stato per alzare il livello della domanda e sopperire all’incapacità del mercato di assicurare il pieno impiego dei fattori produttivi. N. Karleby e O. Undén, a loro volta, in base all’assunto secondo cui il diritto di proprietà non costituisce un’entità unica e indivisibile, ma è formato da un complesso di diritti che possono essere esercitati in relazione all’oggetto del possesso, impostarono quella che diverso tempo dopo, negli anni Sessanta, è stata definita la teoria del socialismo funzionale, la quale sostiene che ognuna delle funzioni in cui si articola la proprietà può essere singolarmente avocata o regolata dallo stato per raggiungere finalità socialiste, senza necessità di far ricorso a una socializzazione integrale. Esperienze in parte simili a quella svedese furono realizzate in Danimarca e in Norvegia, e iniziò così a delinearsi quel ”modello scandinavo” che tanta parte ha avuto nella storia della socialdemocrazia”19.

15 Bad GodesbergAl socialismo funzionale scandinavo seguì il modello della nazionalizzazione inglese. Nel secondo dopoguerra la ricerca di un equilibrio tra stato e mercato portò, nell’esperienza laburista inglese, alla nazionalizzazione delle industrie e dei servizi considerati di importanza primaria. Il senso di questa politica non era la socializzazione dei mezzi di produzione ma l’attribuzione allo Stato della funzione di garante del mercato attraverso il controllo diretto delle leve economiche fondamentali. Ma nel secondo dopoguerra ancora una volta è la vicenda della socialdemocrazia tedesca a risultare paradigmatica e a prestarsi come chiave di lettura della storia dell’intero movimento socialista europeo. Nel 1959, nella città di Bad Godesberg, il congresso del partito socialdemocratico tedesco rigettava definitivamente le tesi marxiste per adottare la redistribuzione del reddito ed il controllo dell’economia come strumenti adeguati a garantire il progresso e l’equità sociale. Su questa strada, in tempi diversi, si incamminarono gli altri partiti socialisti europei20.

Dal riformismo al revisionismo, dall’uguaglianza sostanziale a quella formale. Questa la traiettoria compiuta dalla socialdemocrazia. Una traiettoria che stenta a partire ma che subisce due accelerazioni, ambedue determinate dall’incontro fecondo con un prodotto della cultura liberal-democratica, il Welfare State. Non a caso la socialdemocrazia scandinava elabora il suo modello traendo ispirazione dal prototipo di Stato sociale, quel New deal che Roosvelt costruisce sulla base dei principi economici enunciati da John Maynard Keynes. Nel secondo dopoguerra la socialdemocrazia europea trarrà nuovo impulso dalle proposte di William Beveridge relative alla previdenza e al modello universalistico dell’assistenza sanitaria. Lo Stato sociale, un prodotto della cultura liberal-democratica, costituisce uno strumento così efficiente e così “appetibile” per il socialismo da condizionarne la definitiva emancipazione dal marxismo.

IL FABIANESIMO

Nel 1883, in Inghilterra, nacque la Società Fabiana, un’organizzazione di orientamentosocialista non marxista anche se non esente da influenze marxiste, radicale nei contenuti e moderata nel metodo. La stessa denominazione faceva riferimento alla tattica temporeggiatrice ma infine vincente che il comandante romano Fabio Massimo adottò contro Annibale. Il simbolo dell’organizzazione, un lupo travestito da agnello, lasciava intendere che il riformismo politico puntava in realtà su un programma massimalista.

Simbolo antico della Fabian Society: Lupo travestito da agnello.
Simbolo antico della Fabian Society: Lupo travestito da agnello.

Fondatori ed animatori furono un gruppo di intellettuali tra i quali George Bernard Shaw (1854-1950), Sidney James Webb (1859-1947), sua moglie Beatrice Potter (1856-1943), Herbert George Wells (1866-1946). Da cenacolo intellettuale la Società Fabiana si trasformò in un centro propulsore dell’idea socialista che ebbe grande influenza nella società inglese del tempo e contribuì alla fondazione sia delle Trade Unions che, nel 1900, del partito laburista inglese.

Il programma politico era contenuto nei Fabian Essays in Socialism pubblicati nel 188921. Il socialismo fabiano si poneva in continuità con il radicalismo democratico della rivoluzione inglese e faceva riferimento al liberalismo di Stuart Mill22.

17 EssaysE’ il caso di ricordare che nel XIX secolo il liberalismo europeo inizia a differenziarsi  proprio sulla base dei rapporti che esso stabilisce con la democrazia formale e con il concetto di uguaglianza. Secondo Bobbio è in questo periodo che prende corpo una corrente conservatrice del liberalismo che rifiuta l’uguaglianza come portatrice   di disordine ed una corrente radicale che invece recepisce la istanza egualitaria, nel suo aspetto formale, della democrazia23. I due massimi rappresentanti sono, rispettivamente, Alexis de Toqueville (1805.1859) e John Stuart Mill (1806-1873). Mill è convinto sostenitore della democrazia politica e ritiene che un suffragio allargato e un’adeguata legge elettorale possano garantire dai rischi della dittatura della maggioranza. Egli, inoltre, aveva  ulteriormente elaborato quella teoria utilitaristica verso la quale il fabianesimo si mostrò particolarmente sensibile. Mill muoveva dalle stesse osservazioni di Bentham che aveva giudicato non plausibile l’origine naturale dei diritti individuali proponendo il principio di utilità come fonte di ispirazione legislativa. Mill va oltre affermando che “le azioni umane sono giuste nella misura in cui tendono a promuovere la felicità”. Da qui la legittimità dello Stato ad intervenire sia pure solo per limitare le libertà individuali quando queste vengono esercitate a discapito della comunità. In sostanza viene riconfermata l’idea negativa di libertà ma si introduce una concezione collettiva intesa come somma delle singole libertà: la libertà di ciascuna individuo finisce dove inizia la libertà di un altro.

Congresso delle Trade Unions, 1896
Congresso delle Trade Unions, 1896.
Logo del Partito laburista inglese in uso sino al 1983
Logo del Partito laburista inglese in uso sino al 1983.

Il retroterra culturale del fabianesimo è dunque radicale ma di matrice democratica e liberale e non marxista. Non a caso esso influenzò non poco il pensiero di Carlo Rosselli24. I fabiani “Interpretando in senso ancora più radicale l’utilitarismo liberale, la società fabiana arriva a propugnare l’abolizione della proprietà privata e l’intervento dello Stato come garante della felicità collettiva. Individuano perciò promettenti segnali di slittamento verso il collettivismo nelle nazionalizzazioni e nelle municipalizzazioni dell’industria, nello spostamento dell’onere fiscale a carico della rendita e dell’interesse, nella crescente regolamentazione governativa dell’impresa privata, negli elementi di razionalizzazione economica insiti nei cartelli e nei trust, nell’eliminazione, attraverso le società per azioni, dell’elemento personale nell’amministrazione degli affari, a favore di un’anonima burocrazia industriale. Particolare importanza attribuiscono alle municipalizzazioni, ritenute forme collettivistiche più flessibili rispetto alle nazionalizzazioni: fino alla conclusione della prima guerra mondiale i fabiani operano quasi esclusivamente nelle amministrazioni locali, guadagnandosi l’appellativo di socialisti “water and gas”, “dell’acqua e del gas”, e realizzando significative riforme in senso socialista come l’Education Act del 1902-1903, che disegna la fisionomia della pubblica istruzione inglese25.

Anche nella politica delle alleanze il fabianesimo mostra un approccio gradualista proponendo un alleanza competitiva con quella componente del partito liberale che si era sottratto all’influenza conservatrice per intraprendere la strada della piena democrazia26. Esula dagli obiettiva della presente lettura l’evoluzione successiva del fabianesimo, dalla simpatia mostrata nei confronti del socialismo sovietico alla grande influenza esercita sui governi laburisti del dopoguerra27.

IL  SOCIALISMO  LIBERALE

Mentre la socialdemocrazia, sia nella componente riformista che in quella revisionista, si mantiene nell’alveo del marxismo, il socialismo liberale si propone come una teoria che supera il marxismo  avvalendosi di strumenti ad esso estranei: il liberalismo ed il fabianesimo28. In questa sede non si intende ripercorrere la storia di tutte le discussioni teoriche sul possibile incontro del liberalismo con il socialismo, da John Stuart Mill a John Rawls passando attraverso il liberalsocialismo di Piero Gobetti ed il socialismo liberale di Carlo Rosselli e Guido Calogero. Si è ritenuto che ai fini della comprensione di questo filone culturale si debba fare riferimento innanzitutto a quello che ne è considerato il  principale teorico, Carlo Rosselli, il cui pensiero è esposto in vari scritti ed appare organizzato in forma compiuta in “Socialismo liberale29. Il testo fu scritto dall’autore nel periodo del confino di Lipari (1928-1929) e riveduto probabilmente nel primo anno dell’esilio parigino (nel 1930 compare la prima pubblicazione in francese). Le condizioni di privazione nelle quali si trovò a scrivere l’autore, le necessità impellenti della lotta antifascista e, soprattutto, la sua scomparsa prematura rendono conto di una sorta di incompletezza del suo pensiero che, se risulta ben definito nella critica al marxismo e nell’affermazione dei valori del liberalismo, appare invece meno compiuto nella definizione di un nuovo socialismo. Tuttavia il pensiero di Rosselli e tutta la sua opera di organizzatore instancabile della lotta antifascista risultano improntati da una riflessione così originale (si pensi a cosa significava allora per un socialista rigettare il marxismo) e da una tensione morale così intensa da assumere il carattere dell’eccezionalità assoluta.

20 GLPrima di iniziare a scorrere le riflessioni di Rosselli sia consentito ricordare il pensiero di Bobbio secondo il quale il rapporto tra liberalismo e socialismo rimane su un piano di dualismo irriducibile se il socialismo viene inteso nel senso di un’eguaglianza sostanziale (dei beni) ponendo così in discussione quella libertà economica (e la proprietà privata) da cui il liberalismo trae origine e la sua stessa ragione di essere. Sotto questo aspetto Bobbio giudica velleitarie le formule del “liberalsocialismo” e del “socialismo liberale”30.

In “Socialismo liberale”31, che costituirà la base della presente trattazione, Carlo Rosselli parte proprio dall’antinomia che sarà rilevata da Bobbio: “Il liberalismo si è investito progressivamente del problema sociale e non sembra più necessariamente legato ai principî della economia classica, manchesteriana. Il socialismo si va spogliando, sia pure faticosamente, del suo utopismo ed è venuto acquistando una sensibilità nuova per i problemi di libertà e di autonomia. È il liberalismo che si fa socialista, o è il socialismo che si fa liberale? Le due cose assieme. Sono due visioni altissime ma unilaterali della vita che tendono a compenetrarsi e a completarsi”. Vediamo come.

Commetterebbe un errore chi volesse vedere nel socialismo liberale un’ideologia che si contrappone al marxismo nella costruzione di una interpretazione alternativa della storia e del mondo. Il socialismo liberale era per lo stesso Rosselli un approccio critico alla realtà. E certamente non a caso nell’esporre la sua idea egli inizia riproponendo tutte le critiche che il revisionismo aveva già portato al marxismo. Ma Rosselli va oltre per criticare lo stesso revisionismo che non aveva saputo trarre le dovute conseguenze abbandonando definitivamente il marxismo come interpretazione del mondo per conservare solo alcuni aspetti: la rilevanza decisiva delle forze economiche, la natura conflittuale del rapporto tra sistema produttivo (sociale) e sistema di distribuzione della ricchezza (privato), la realtà della lotta di classe, la indubbia utilità nel processo di presa di coscienza del movimento operaio. Questi i risultati ottenuti dalla ricerca marxista che sono condivisibili per Rosselli ma si tratta di verità “che come tali non sono né borghesi né proletarie”.

Alcuni redattori della rivista “Non mollare”. Da sinistra a destra: Nello Traquandi, Tommaso Ramorino, Carlo Rosselli, Ernesto Rossi, Luigi Emery, Nello Rosselli. 1925.
Alcuni redattori della rivista “Non mollare”. Da sinistra a destra: Nello Traquandi, Tommaso Ramorino, Carlo Rosselli, Ernesto Rossi, Luigi Emery, Nello Rosselli. 1925.

Il primo punto messo in discussione è il concetto di comunismo come prodotto ultimo di leggi immanenti della storia. Come conseguenza del prevalere inevitabile del movimento operaio, forza produttiva moderna che interpreta le nuove esigenze economiche, su una classe borghese ancorata ai vecchi rapporti di produzione. Il comunismo come approdo finale del conflitto tra produzione sociale e rapporti di produzione di tipo privatistico. Rosselli inizia con il contestare il determinismo marxista che tale rimaneva a suo avviso anche dopo gli sforzi compiuti da Labriola, Sorel e Mondolfo per attribuire agli uomini un qualche ruolo nella storia. Nel marxismo l’azione degli uomini può solo fare da catalizzatore e acceleratore di processi naturali della storia. Questo il pensiero di Rosselli: “È chiaro che l’introduzione del fattore «volontà umana» nel processo storico, significa escludere a priori ogni valore scientifico a una previsione sociologica. Infatti o si ammette una sfera di libertà, per quanto condizionata, nella vita dello spirito, nel modo d’essere della coscienza, o non la si ammette. Se la si ammette cade il  concetto di necessità storica, e sorge l’alternativa. Si introduce cioè quell’elemento di dubbio che nel sistema marxista difetta totalmente”.

Rosselli ravvedeva una crepa nel determinismo materialista solo in alcuni aspetti della lotta classe e solo formalmente. Per Marx la lotta di classe altro non era che espressione “necessaria” del contrasto tra chi rappresenta le forze produttive, il proletariato, e chi rappresenta i rapporti di produzione, la borghesia. Tuttavia Marx in qualche passaggio si era mostrato incerto sul risultato finale, la ineluttabile vittoria del proletariato, ammettendo che lo scontro potesse risolversi nell’esaurimento dei due contendenti soprattutto a causa di un difetto di consapevolezza storica da parte del movimento operaio. Per scongiurare tale esito diventava necessaria l’organizzazione, la propaganda, l’azione. Ma la presa di coscienza da parte del proletariato non è lo stimolo decisivo da identificare invece negli eventi che lo stesso capitalismo produce: la universale proletarizzazione, il progressivo immiserimento dei ceti popolari, la concentrazione dei capitali, le drammatiche inevitabili crisi del sistema capitalistico. In questo contesto “la propaganda ha l’ufficio di accelerare il processo, eliminare gli ostacoli; non mai di determinarlo). Per descrivere il carattere dogmatico, propriamente religioso, del determinismo marxista Rosselli utilizza l’immagine di un “Dio della produzione”.

Quindi Roselli passa ad analizzare la storia del movimento operaio in quelle componenti che egli chiama “revisioniste”. A cominciare dalle organizzazioni sindacali che nella concezione marxista hanno un ruolo ancillare rispetto al partito ma che nella realtà si sono comportante sulla base di una autonoma elaborazione culturale nella quale ha sempre prevalso un approccio pragmatico e mirato al sostanziale miglioramento delle condizioni di lavoro e di vita della classe  operaia. Dice Roselli che il movimento sindacale da oltre mezzo secolo “di tutte le tesi marxistiche non ha salvato – coi dovuti temperamenti – che il principio della lotta di classe e della autoemancipazione proletaria. Principio tattico e pedagogico certo  fondamentale, che Marx più di ogni altro scrittore ha contribuito ad illustrare, ma che non può considerarsi monopolio della scuola marxista (Marx rubò di peso la formula a Blanqui), non foss’altro perché fu sempre regola istintiva delle organizzazioni operaie. Per il resto esso ha rinnegato implicitamente tutte le tesi marxiste affermando la possibilità e la desiderabilità di una trasformazione graduale della società borghese con le armi del voto, della contrattazione, dell’agitazione, cioè col ricorso al metodo democratico”. Proprio per questo il movimento sindacale è divenuto possente ed ha potuto contribuire all’elevazione del proletariato.

23 I miei conti con il marxismo
Testo scritto da Carlo Rosselli a mo’ di prefazione in Socialismo liberale

Ma, a livello di quadri direttivi, il revisionismo non riuscì ad andare oltre una rielaborazione “di maniera” confezionando un marxismo fortemente riveduto e corretto per non arrivare alla logica conclusione: la separazione del socialismo dal marxismo. Questa timidezza sta alla base di una crisi intellettuale di portata storica che investì le fila socialista a partire dai primi anni del Novecento e che determinò il progressivo allontanamento dei giovani e degli intellettuali dall’ideale socialista. In Italia l’incapacità dei quadri dirigenti socialisti di portare alle estreme conseguenze la critica revisionista fu la causa prima del successo conseguito da un Mussolini spregiudicato che seppe intuire il desiderio di idealismo dei giovani portandoli dalla sua parte ed ottenendo una clamorosa vittoria all’interno del movimento.

La nascita dei partiti comunisti anziché spingere il socialismo a trarre tutte le conseguenze della critica revisionista ha invece determinato, con la sola eccezione del laburismo inglese, un loro arroccamento su una ribadita presunta purezza marxista. Invece, per Rosselli, era necessario che il socialismo compisse un bilancio definitivo. E le sue conclusioni sono impietose: il marxismo non è socialista. Il revisionismo rifiutava un aspetto decisivo del marxismo, il determinismo storico, ma così facendo non poteva che giungere a rigettare la “conclusione socialista del marxismo”. Ma per non arrivare a questo i revisionisti introducono altri fattori di sviluppo storico, dalla libertà alla volontà, sino al “rovesciamento della praxis” (l’influenza che la sovrastruttura esercita sulla struttura). Ma questa nuova visione non è socialista e non contiene nulla che accrediti una soluzione socialista. Senza contare che il marxismo è una teoria socialista solo per le conclusioni. La paralisi culturale portò i socialisti all’inazione anche e soprattutto di fronte al fascismo, che fu subito come evento inevitabile in quanto momento di maturazione ulteriore del capitalismo.

25 PdASecondo Rosselli bisogna ripartire dal concetto di libertà e da un socialismo inteso come emancipazione da ogni forma di servitù. Da questo punto di vista non c’è contraddizione alcuna tra liberalismo e socialismo ed anzi “Il liberalismo è la forza ideale ispiratrice, il socialismo la forza pratica realizzatrice”. I due poli dell’antinomia possono comporsi perché messi su piani diversi. Nonostante i termini utilizzati in realtà il liberalismo, “forza ideale ispiratrice”, viene considerato alla stregua di un metodo mentre il socialismo, “forza pratica realizzatrice”, viene posto sul piano del fine da raggiungere. Ma la gran parte della borghesia è arroccata su diritti acquisiti in un tempo in cui erano legittimi ma che ormai si sono trasformati in privilegio, e la sua idea di libertà uguale per tutti è così sclerotizzata da non potersi evolvere sino a comprendere le nuove libertà sociali. E non si può chiedere alla borghesia di auto-immolarsi. Solo il proletariato, come classe, può ereditare quell’idea di libertà da cui nacque il liberalismo e portarla a compimento per costruire una società più giusta al di fuori di ogni visione utopistica e messianica. I socialisti, dopo l’esperienza sovietica, non possono più credere che la collettivizzazione dei mezzi di produzione generi di per sé una trasformazione apocalittica con l’aumento della ricchezza, la liberazione dalla servitù, il lavoro creativo e gioioso, l’avvento di una società senza classi. Sui mezzi di produzione Rosselli non va oltre la citazione di “forme di conduzione” autonome e diversificate a seconda dei casi: “forme municipali, cooperative, sindacali, gildiste, trustiste, forme miste, con innesto dell’interesse generale sul particolare, forme individuali e famigliari.”. In questo passaggio appare chiara l’influenza fabiana e laburista sul pensiero di Rosselli ma anche una concezione non definita sia perché la riflessione sull’argomento non è ancora sufficientemente matura sia perché non si vuole proporre un nuovo dogma.

Il metodo da utilizzare è quello liberale che, come sottolineato da Bobbio32, oggi correntemente viene definito democratico. Lo stesso Rosselli avvertiva la necessita di precisare “metodo liberale o democratico”. Infatti, la concezione di libertà di Rosselli, in quanto riassumibile nel concetto di autogoverno, assume una forma negativa ma la ulteriore specificazione come emancipazione da ogni forma di servitù così come quella sulle norme necessarie a garantire la convivenza, la rendono molto più vicina a quella che oggi è definita libertà repubblicana (emancipazione da ogni forma di dipendenza) che non a quella propriamente liberale (assenza di interferenza). Sulla diversa accezione negativa della libertà nel repubblicanesimo e nel liberalismo, si vedano i testi “Repubblicanesimo33 e “Storici contemporanei e repubblicanesimo moderno34” pubblicati in altra parte del sito. Se proprio si vuole individuare una differenza tra la concezione di Rosselli e quella democratica essa va ricercata nella precisazione del contenuto anche sociale della libertà intesa come necessità di sottrarre “gli uomini alla schiavitù della materia e dei materiali bisogni che oggi ancora domina il maggior numero”. Ma anche questa differenza appare molto tenue se si pensa a quanta importanza Mazzini ed il movimento democratico avevano attribuito alle questioni del lavoro e della crescita civile e sociale dei lavoratori. E non è certo un caso se Rosselli, a differenza di Gobetti, considera Mazzini un maestro “socialista” del passato e utilizza alcuni concetti, segnatamente quello di “libertà come dovere morale”, che richiamano consapevolmente i “Doveri dell’Uomo”. Nella sua concezione Mazzini, con Cattaneo, è il vero sconfitto di un Risorgimento a trazione sabauda che separò violentemente il mito unitario da quello libertario. La libertà, come aspirazione morale, deve essere il metodo adottato dal socialismo sul quale misurare la propria azione e gli stessi eventi storici. Il fascismo non è solo la reazione violenta della borghesia più retriva all’ascesa del proletariato. Il fascismo è molto di più e non sarebbe mai sorto se i suoi caratteri non fossero già incisi nella storia italiana e non comprendessero (dis)valori immateriali come “faziosità, spirito d’avventura, gusti romantici, idealismo piccolo borghese, retorica nazionalista, reazioni sentimentali della guerra, inquieto desiderio del nuovo, qualunque esso fosse” e soprattutto l’abitudine ad affidare ad altri la propria  coscienza, un abitudine insegnata ed imposta per lunghi secoli anche dalla Chiesa. Per questo la lotta antifascista assume un valore che è soprattutto morale e riguarda tutti, ben oltre i diversi interessi di classe.

La concezione di Rosselli è interclassista perché rifiuta il dualismo semplicistico che oppone la classe borghese alla classe operaia relegando le altre categorie di lavoratori ad uno stato “anfibio” dal quale escono solo per essere assorbite dai due grandi contendenti; plurale perché prevede una economia ed una società nella quale convivono forze  produttive diversamente strutturate: l’impresa propriamente capitalistica, il cooperativismo, l’artigianato, la piccola proprietà rurale; libertaria in quanto accetta il liberalismo e lo pone come metodo irrinunciabile di lotta politica (in realtà secondo Bobbio il metodo proposto da Rosselli dovrebbe oggi essere definito democratico35); socialista perché la giustizia sociale rimane il fine da perseguire ma soprattutto perché individua nel proletariato la  classe sociale in grado di riaffermare e rinnovare il liberalismo.

In conclusione: cosa fu il socialismo liberale? Una proposta culturale complessa e non organizzata in dogma, indubbiamente affascinante e che conteneva in nuce gli elementi di un rinnovamento radicale del socialismo. Ma che non ebbe una concreta traduzione politica nemmeno in Italia. Il socialismo europeo che così a lungo ha governato nell’Europa del secondo dopoguerra scaturisce dalla tradizione marxista cui rimane a lungo ancorato prima di emanciparsene attraverso un faticoso percorso revisionistico. In alcuni Paesi questo processo fu agevolato dall’innesto di elaborazioni non marxiste come il fabianesimo in Inghilterra, fondamentale per la nascita del partito laburista, o il pensiero economico della scuola di Stoccolma, decisivo per la svolta democratica del socialismo scandinavo. Non è stato così in Italia, dove l’elaborazione originale del socialismo liberale rimase confinata nell’ambito della discussione ideologica e solo per breve tempo riuscì ad improntare alcuni movimenti, rimasti sempre minoritari all’interno della stessa sinistra (dal movimento Giustizia e Libertà al Partito d’Azione). Sulla sorte del socialismo liberale, al di là di ogni altra considerazione, pesò certamente la scomparsa prematura di Piero Gobetti e dei fratelli Rosselli. Se in Gobetti è il liberalismo che si apre verso il socialismo, non senza forti suggestioni nei confronti dello stesso comunismo marxista, nei Rosselli è il socialismo che recupera il liberalismo. Un socialismo completamente svincolato dal marxismo di cui Carlo Rosselli coglie non solo l’ormai evidente carattere liberticida ma la stessa inadeguatezza a garantire lo sviluppo economico e la crescita sociale. Sia consentito, per un momento solo, chiedersi a quali straordinari risultati sarebbero arrivati questi intellettuali raffinati se le loro vite non fossero state stroncate così precocemente. 

Giustizia e Libertà, 18 Giugno 1937.
Giustizia e Libertà, 18 Giugno 1937.

E il socialismo liberale merita di essere ricordato proprio in quanto occasione mancata o, se si preferisce, non colta da quelle formazioni della sinistra che in Italia più a lungo che altrove rimasero legate all’ideologia marxista. Il socialismo liberale rimase sostanzialmente isolato perché rappresentava un pensiero non coerente rispetto al momento storico. Come ricorda Ugo La Malfa36, proprio negli anni ’30 del Novecento il nazifascismo sembrava poter dominare l’intera Europa, le democrazie liberali si mostravano incerte e la guerra di Spagna ne aveva dimostrato tutta la debolezza. In quel momento solo il comunismo sovietico sembrava ergersi a baluardo contro la barbarie che incombeva sull’Europa. Fu così che molti giovani di tradizione democratica scelsero il comunismo. Tra gli altri Enrico Berlinguer, Bruno Trentin, Giorgio Amendola. Sul finire della guerra il contesto storico mutava radicalmente ma rimaneva ancora nettamente diviso, questa volta tra il campo liberaldemocratico e quello comunista. Contributi intellettuali come il socialismo liberale ancora una volta non erano coerenti con il contesto storico e finirono per esaurirsi prima che si aprissero spazi nuovi. Così, nel campo socialista, con la sola eccezione del laburismo inglese, sopravvissero solo le forze che, sebbene criticamente, erano rimaste ancorate alla tradizione marxista, non avevano ritenuto di dover marcare la distanza dalla rivoluzione bolscevica con sufficiente chiarezza e che, proprio per questo, apparivano più adeguate al nuovo contesto storico.

LA  CRISI  DEL  SOCIALISMO  EUROPEO

Negli anni che seguono il crollo del muro di Berlino (1989), la cultura occidentale si trova a fare i conti non tanto e non solo con la fine del mito comunista ma soprattutto con la crisi della socialdemocrazia europea. La coincidenza appare singolare e forse non casuale se è vero che “la fine del comunismo storico sembra trascinare dietro di sé un minore apprezzamento anche della socialdemocrazia37. Questa spiegazione, resa plausibile dalla constatazione che il movimento socialista poteva pagare pegno alla caduta del mito marxista da cui proveniva, è tuttavia solo parziale. Piuttosto, in quel frangente, emerge nella classe dirigente socialista europea, una drammatica inadeguatezza di analisi e di proposta.

Già nel 1994, in “Eclissi o tramonto dell’idea socialista?”, Luciano Pellicani aveva colto e analizzato la crisi teorica del socialismo di fronte al declino del modello keynesiano dell’economia mista e al ritorno imperioso del liberismo dello Stato minimo38. E’ bene ricordare che nel 1994 l’economia occidentale era già improntata dalla politica liberista, allora definita monetarista, imposta al mondo da Reagan e dalla Tatcher. Un epoca di liberismo selvaggio che dopo aver sconfitto  il modello keynesiano si apprestava a dominare incontrastato per i decenni successivi. La crisi economica mondiale che il mondo sta vivendo dal 2008 è il risultato ultimo di quella politica. Per questa ragione le considerazioni di Pellicani, fatte allora, sono ancora oggi di assoluta attualità e meritano di essere rilette con attenzione massima.

Pellicani identifica fondamentalmente due fattori di crisi del socialismo europeo: da una parte la modificazione della struttura sociale con la perdita di centralità della classe operaia; dall’altra la incapacità di proporre un modello alternativo al liberismo imperante.

Innanzitutto la classe operaia, tradizionale area di riferimento del socialismo, aveva subito una progressiva contrazione nel corso degli anni. Così Pellicani: “Il declino quantitativo della classe operaia, conseguenza dello sviluppo economico che tendeva a dilatare il settore terziario e quindi le dimensioni dei ceti medi, poneva i partiti socialisti di fronte a un imbarazzante dilemma. Per mantenere ampi consensi fra l’elettorato, essi erano obbligati ad assumere posizioni sempre più interclassiste; ma in tal modo essi perdevano la capacità di rappresentare gli specifici interessi della classe operaia. D’altra parte, se rimanevano ancorati al classismo, si condannavano ad essere partiti di minoranza, permanentemente all’opposizione”.

Il secondo e forse ancora più rilevante elemento di crisi del socialismo fu il declino del modello del  Welfare State. Si è visto che nel secondo dopoguerra la socialdemocrazia europea aveva finalmente abiurato i principi fondamentali del marxismo, dalla dittatura del proletariato alla collettivizzazione dei mezzi di produzione. Nel suo lungo e tormentato percorso aveva finito per “democratizzarsi” abbracciando il keynesismo ed approdando infine al Welfare State che aveva saputo utilizzare come strumento di redistribuzione del reddito e di affermazione dei diritti sociali. Alle considerazioni di Pellicani si potrebbe aggiungere che, in buona sostanza, la socialdemocrazia europea aveva finito per assumere connotati propriamente democratici, rinunciando all’egualitarismo sostanziale (della proprietà) per accettare quello formale (dei diritti). La specificità della socialdemocrazia europea era quella di aver esteso l’uguaglianza dai diritti politici a quelli sociali.

Lo Stato sociale entra in crisi quando la possibilità di spesa (pubblica) si riduce drammaticamente  per un rallentamento della crescita economica che inizia con la crisi petrolifera del 1973 ed accelera negli anni successivi. E’ così che negli anni ’80 torna in auge il liberismo dello Stato minimo. Reagan e la Tatcher impongono al mondo una politica di “deregulation” dell’economia nella quale le regole sono ridotte al minimo e l’intervento dello Stato progressivamente ridimensionato. Quale fu la reazione da parte socialista sul piano dell’elaborazione teorica? Scrive Pellicani: “La risposta socialista alla sfida neoliberista fu immediata. Consapevoli che il modello del Welfare State stava esaurendo le sue potenzialità, alcuni partiti dell’Internazionale socialista posero all’ordine del giorno la costruzione di un modello alternativo, capace di ridare slancio al progetto egualitario. Nella seconda metà degli anni Settanta furono elaborate ardite proposte – si pensi al Rapporto Bullock in Gran Bretagna e al Piano Meidner in Svezia – nelle quali veniva delineata una nuova frontiera della democrazia industriale o addirittura una riorganizzazione generale dell’economia basata sul principio autogestionario. Tali proposte, pur rifiutando lo statalismo, intendevano socializzare la produzione, istituendo il controllo operaio delle aziende. Esse, in altre parole, disegnavano un modello di economia di mercato partecipativa, capace di coniugare la proprietà sociale dei mezzi di produzione con la logica pluralistico-competitiva”. In sostanza un passo indietro, un ritorno alla socializzazione dei mezzi di produzione. Ma l’ipotesi collettivistica, sia pure nella versione autogestionaria, era ormai divenuta estranea alla tradizione del socialismo europeo e fu presto abbandonata: troppo alto il rischio che l’abolizione dell’iniziativa privata compromettesse l’efficienza ed il dinamismo del mercato e plausibile il timore di determinare un controllo monopolistico dei mezzi di produzione da parte dei sindacati. In sostanza, conclude Pellicani, il socialismo non fu in grado di elaborare una proposta alternativa al liberismo.

Si potrebbe anche aggiungere che il socialismo europeo, inspiegabilmente per molti aspetti, accettò come ineluttabile il declino del Welfare State e subì passivamente la critica al keynesismo senza tener conto che questo era nato in risposta ad una crisi economica mondiale di enorme portata, quella del 1929, proprio sull’intervento dello Stato come strumento essenziale per creare reddito, sostenere la domanda, aumentare la crescita, produrre sempre più occupazione. E’ vero che in quel momento l’inflazione era troppo alta, la spesa pubblica aveva raggiunto livelli difficilmente sostenibili, l’occupazione segnava il passo e la crescita rallentava inesorabilmente. In sostanza era necessario rivedere i meccanismi dell’economia mista. Ma uno degli obiettivi fondamentali e forse quello decisivo, la riduzione di una spesa pubblica così ipertrofica da bloccare lo sviluppo, poteva forse essere perseguito puntando su una maggiore efficienza del sistema, una più rigorosa equità nella distribuzione del reddito, una revisione del Welfare State che eliminasse le rendite di posizione e le sacche di parassitismo. Questa tesi era sostenuta dalle forze democratiche, frammentate negli Stati Uniti e largamente minoritarie in Europa. Mancò invece una risposta da parte socialista e, anche per la sostanziale debolezza dello schieramento democratico, il liberismo selvaggio poté imporsi producendo un’onda così lunga da presentare il conto in questi anni.

 

Carlo De Luca, Tivoli, 3 Gennaio 2014.

 

AGGIORNAMENTO 1 (29 Dicembre 2014). E’ sembrato utile integrare questa Lettura sul Socialismo con i contributi di due intellettuali francesi del nostro tempo, Jacques Julliard e Alain De Benoist, che, a partire da punti di vista molto diversi, dibattono l’attuale crisi del socialismo europeo.

  BIBLIOGRAFIA

1. Norberto Bobbio. Liberalismo e democrazia. Simonelli, Milano, 2006. L’idea di socialismo di Bobbio deve essere interpretata dalla lettura dell’intero testo.

2. Il testo fondamentale di Thomas Humphrey Marshall, Cittadinanza e classe sociale, fu pubblicato nel 1950. Una ristampa dell’edizione italiana è stata pubblicata nel 2002 da Laterza. Una sintesi efficace del pensiero di Marshall si trova in: Edoardo Greblo. Diritti minimi. In: Ethics & Politics, 2: 306-337, 2010.

3. Per un approfondimento sull’accezione negativa e positiva del concetto di libertà e sulla differenza tra la concezione liberale e quella repubblicana si veda il testo “Storici contemporanei e repubblicanesimo moderno” pubblicato in altra parte del sito.

4. In realtà l’idea di libertà di Mazzini è molto complessa e si avvale sia degli strumenti della libertà positiva che di quelli della libertà negativa. Si veda in proposito il testo  “Mazzini e i doveri dell’Uomo” pubblicato in altra parte del sito.

5. Alessandro Pavarin (2012). Luddismo. In: Dizionario di Economia e Finanza dell’Enciclopedia Treccani.

6. George Gordon Byron (1812). Discorso al Parlamento inglese in opposizione alla legge che introduce la pena di morte. Riportato da Finimondo”.

7. “Socialismo”. Enciclopedia Treccani (versione on line), cit.

8. “Socialismo”. Enciclopedia Treccani, Dizionario di Storia.

9. Antonio Zanfarino (1976-1977). La proprietà nel pensiero di Proudhon. Quaderni Fiorentini per la stroria del pensiero giuridico moderno, n° 5-6: 165-200.

10. Socialismo”. Enciclopedia Treccani, Dizionario di Storia,  cit.

11. Opere di Proudhon . Vol. 1. Trattato del dominio di proprietà. Studio editorio, Napoli, 1844.

12. Pierre Joseph Proudon. La proprietà. Bottega dell’antiquario, Roma, 1886.

13. “Socialismo”. Enciclopedia Treccani (versione on line), cit. “Owen Robert”, Enciclopedia Treccani (versione on line).

14. Il materialismo storico nel pensiero di K. Marx. Heinlow-logon.net

15. Karl Marx, Friedich Engels. Il manifesto del partito comunista. Traduzione di Lucio Caracciolo. Milano, Silvio Berlusconi editore, 1998.

 16. Diego Fusaro. Eduard Bernstein. Filosofico.net; Sergio Dalmasso. Il primo dibattito sul “revisionismo”: Bernstein, Kautsky, Rosa Luxemburg. In: Il calendario del popolo, n° 615, dicembre 1997.

17. Sergio Dalmasso. Il primo dibattito sul “revisionismo”: Bernstein, Kautsky, Rosa Luxemburg, cit.

18. Giorgio Trichilo. La socialdemocrazia tedesca nello specchio della “Critica sociale” (1899-1904) Studi Storici, Anno 36, n° 2, pp. 415-444, Apr.-Jun., 1995.

19. “Socialdemocrazia”. Enciclopedia Treccani, Appendice, 1995.

20. “Socialdemocrazia”. Enciclopedia Treccani, cit.

21. Fabian essays in socialism. London, The Fabian Society, 1889.

22. Paolo Mazzeranghi. Il fabianesimo. In: Voci per un Dizionario del Pensiero Forte, I.D.I.S. – Istituto per la Dottrina e l’Informazione Sociale. a cura di Giovanni Cantoni. Piacenza, Cristianità, 1997.

23. Per una sintesi del liberalismo nella concezione di Bobbio si veda “Lettura sul Liberalismo”, pubblicata in altra parte del sito e tratta da “Liberalismo e democrazia”, cit.

24. Michele Mioni. L’esperienza intellettuale e politica del laburismo nel pensiero di Carlo Rosselli. Diacronie, Studi di Storia Contemporanea, n° 12, 4, 2012.

25. Paolo Mazzeranghi. Il fabianesimo, cit.

26. Michele Mioni. L’esperienza intellettuale e politica del laburismo nel pensiero di Carlo Rosselli, cit.

27. Paolo Mazzeranghi. Il fabianesimo, cit.

28. Sull’influenza che il fabianesimo esercitò sul pensiero di Carlo Roselli si veda: Michele Mioni. L’esperienza intellettuale e politica del laburismo nel pensiero di Carlo Rosselli, 2012, cit. 29. Carlo Rosselli. Socialismo liberale. 1930. 30. Per una sintesi del liberalismo nella concezione di Bobbio si veda “Lettura sul Liberalismo”, pubblicata in altra parte del sito e tratta da “Liberalismo e democrazia”, cit. 31. Carlo Rosselli. Socialismo liberale, cit. 32. Norberto Bobbio. Introduzione. In: Carlo Rosselli. Socialismo liberale. Torino, Einaudi, 1997. 33. Democrazia Pura. Repubblicanesimo. 2012. 34. Democrazia Pura. Storici contemporanei e repubblicanesimo moderno. 2012. 35. Norberto Bobbio. Introduzione. In: Carlo Rosselli. Socialismo liberale, cit. 36. Democrazia Pura. Traduzione dell’articolo di Ugo La Malfa “Comunismo e democrazia in Italia” pubblicato nel 1978 su Foreign Affairs (traduzione 9 settembre 2013). 37. Norberto Bobbio. Attualità del socialismo liberale. In: Carlo Rosselli. Socialismo liberale. Torino, Einaudi, 1997. 38. Luciano Pellicani (1994). Eclissi o tramonto dell’idea socialista? Working Paper n.85, Barcelona 1994.