La Storia e l’arte della manutenzione della memoria

La guerra fredda congelò la memoria storica dei singoli Paesi europei che riemerse però prepotentemente dopo il crollo del muro di Berlino per maturare ulteriormente negli anni successivi. La Brexit, l’indipendentismo catalano e il nazionalismo polacco sono il risultato compiuto di lunghi processi iniziati in conseguenza del ritorno di antichi fantasmi che sono, rispettivamente, il lutto melanconico legato alla perdita dell’impero britannico, il dolore inemendabile della guerra civile spagnola e il mito ottocentesco di una Polonia della Cristianità. Questi fantasmi, pure compressi dalla guerra fredda per lungo tempo, non si sono mai estinti e, con il crollo del comunismo, sono riemersi pressoché intatti. Ed oggi si aggirano per l’Europa producendo fenomeni impensabili sino a poco tempo fa. Questa la tesi sostenuta dallo storico Dan Diner in un colloquio con il giornalista e scrittore Wlodek Goldkorn pubblicato su L’Espresso nel 2019. Molte altre le riflessioni svolte nel corso del colloquio sul cattivo uso della memoria, sull’utilizzo di metafore nella storiografia laica e sulla necessità di utilizzare lo strumento della critica illuministica.

 

La Storia e l’arte della manutenzione della memoria 

Colloquio con Dan Diner di Wlodek Goldkorn

L’Espresso, n. 44, 27 ottobre 2019, pp. 62.67

La Brexit, le divisioni spagnole, i nazionalismi diffusi hanno un’origine comune: ferite rimosse o represse. Che oggi riesplodono. E spazzano via la ragione.

«La Brexit è una catastrofe. E deriva dal cattivo uso della memoria. È riaffiorato il fantasma dell’Impero britannico perduto nel processo di decolonizzazione».

«Gli intellettuali non esistono più perché non c’è astrazione. E con la loro scomparsa abbiamo difficoltà a capire la complessità del mondo».

Dan Diner in un’immagine di repertorio tratta da L’Espresso

Prima di cominciare a rispondere alle domande sul futuro della memoria e quindi su quella che è la rappresentazione del nostro passato proiettata nell’avvenire, Dan Diner vuole fare un esempio di stretta attualità di come certi ricordi, se non elaborati e assimilati dall’animo degli umani, abbiano una valenza politica immediata. Diner, 73enne, storico, ha insegnato all’Università di Gerusalemme e di Lipsia, ha scritto libri importanti (in italiano è stato tradotto il fondamentale “Raccontare il Novecento”, Garzanti). Figlio di reduci della Shoah, è nato in un campo profughi in Germania, da giovane è andato a vivere in Israele e ora divide il suo tempo fra i due Paesi: una biografia, la sua, che spiega l’interesse per il rapporto fra storia, memoria e politica. Dice dunque il nostro interlocutore: «Vorrei iniziare con una considerazione su Brexit. È una catastrofe. E sa quali sono le sue radici? La sua origine è da cercare nel cattivo uso della memoria». Spiega: «Si tratta di una dinamica che riguarda l’intera Europa e che nessuno al momento è in grado di gestire». Prosegue: «Pensiamo al periodo della Guerra Fredda. È stata un’epoca eccezionale nella storia della modernità. Avevamo un sistema bipolare quasi perfetto: Occidente contro Oriente, libertà contro uguaglianza, capitalismo contro comunismo. Aggiunga l’equilibrio del terrore, ossia la simmetria fra le forze nucleari  americane e quelle sovietiche e avrà la visione di un universo retto dalla razionalità apparente. Il guaio è che in questo quadro, per quattro decenni la memoria è stata congelata». Riflette: «Prima di parlare della Gran Bretagna, devo fare un’ulteriore annotazione. Le conseguenze del crollo del Muro di Berlino, nel 1989, erano differenti fra i luoghi di quello che chiamavamo l’Occidente e i Paesi che abbiamo considerato l’Oriente. La fine dei regimi comunisti ha una data precisa, e così anche l’emersione delle antiche memorie rimosse e represse. Nelle vecchie democrazie invece (in Italia, divisa in due, crollò il sistema dei partiti), siamo su una specie di piano inclinato. Le memorie sono riaffiorate, all’inizio lentamente ma poi hanno subito un’accelerazione sempre più potente. E così scopriamo oggi, con nostra sorpresa, l’esistenza di umori e pulsioni di cui non sapevamo niente».

 Partiamo dall’esempio di Brexit, allora.
«Si tratta del fantasma dell’Impero britannico perduto nel processo di decolonizzazione, e che è riaffiorato in questi ultimi anni. Siamo di fronte a quello che viene chiamato il dolore di un arto amputato. Durante la Guerra Fredda, gli inglesi non lo percepivano. È arrivato ora, dopo la sospensione temporale di alcuni decenni e generazioni. La memoria è stata scongelata. E sta facendo dei danni, in assenza di una politica capace di farvi fronte».

 Cos’è la memoria?
«Non è una materia che viene cinicamente manipolata dai politici senza scrupoli. Certo, ha un suo aspetto politico, strumentale propagandistico. Però la memoria di per sé è un fenomeno naturale, antropologico, materiale. È anche un fenomeno latente, nel senso che in certi periodi storici irrompe in superficie come un fiume carsico, in altri resta sotto la superficie della vita delle persone e della società».

Quando parla dell’aspetto antropologico, quindi di qualcosa che viene molto prima della politica, cosa intende?
«Stiamo parlando del Novecento e delle sue conseguenze. Al centro del secolo scorso ci sono gli orrori. Ora, la nostra memoria talvolta vuole avvicinare gli orrori, altre volte è portata a tenere lontani i fantasmi che la popolano e i ricordi diretti o tramandati delle atrocità subite e commesse. Si tratta di memorie radicate nell’animo delle persone, quindi di qualcosa in origine, autentico. Faccio alcuni esempi. Il primo, le atrocità perpetrate dai nazisti e dai tedeschi. Mettiamo quella vicenda al confronto con le atrocità degli stalinisti e dei russi. Ecco, le atrocità dei tedeschi e dei nazisti erano rivolte verso l’esterno, verso gli altri (sto semplificando, ma senza semplificazione niente modelli). La memoria tedesca di questo parla, dell’essere stati carnefici e non certo vittime. Una delle conseguenze è che la Germania, il Paese più potente dell’Europa, cerca di presentarsi come un Paese debole e che non minaccia nessuno, mentre gli inglesi hanno la percezione opposta, che siano stati i tedeschi a vincere la guerra e a dominare oggi il Continente (ma di Brexit abbiamo già parlato). Le atrocità staliniste erano invece rivolte verso l’interno (e di nuovo semplifico). Un ufficiale della Nkvd, la polizia segreta che partecipò alle fucilazioni di migliaia e migliaia di persone, in genere finiva lui stesso epurato e fucilato. Per i discendenti, per i nipoti, quel nonno era un carnefice o una vittima? La risposta è: fu ambedue le cose. Ma allora, l’unica via d’uscita da questa situazione è non parlarne ed esaltare magari le vittorie di Stalin».

Qual è il rapporto fra memoria e storia?
«La memoria è il palinsesto della storia. In mancanza della memoria non c’è di che parlare. Ma vorrei soffermarmi sul caso della Spagna».

 Prego.
«Dopo la morte di Francisco Franco, nel 1975, per decenni non si parlò della Guerra civile. È come se quella vicenda e quelle atrocità non ci fossero state. Gli spagnoli ci hanno messo alcuni decenni per tornare alle loro memorie. E infatti, solo ora la salma del dittatore viene spostata dal mausoleo a Valle de los Caidos a un normale cimitero. Però emergono altri aspetti della memoria: l’identificazione con i protagonisti del passato. In Catalogna (e non cerco di dare un giudizio politico sulla vicenda né sulle pene inflitte ai leader incarcerati) è come se volessero ripetere la lotta per l’indipendenza nella guerra civile di oltre ottant’anni fa. La memoria quindi non è un reperto museale ma, ripeto, una forza latente, pronta a esplodere».

Facciamo un ultimo esempio, importante per l’Europa di oggi. In Polonia, il potere attuale parla esplicitamente di una “politica della storia”. La memoria viene usata in chiave nazionalista per affermare la visione di un Paese etnicamente omogeneo, cattolico, diffidente nei confronti di Berlino. Un Paese modello per i sovranisti.
«E allora, parliamo della nozione del totalitarismo, usata in rapporto con la memoria. Quando i polacchi la evocano oggi, in realtà hanno in mente non tanto lo stalinismo e il nazismo, quanto la loro posizione territoriale fra la Germania e la Russia. L’anti-totalitarismo, una nozione che risale pure alla Guerra Fredda e al congelamento delle memorie di quel periodo e che era molto utile per contrastare il comunismo, riprende oggi una tonalità nazionale, etnica e geopolitica. Aggiungo che sempre in Polonia i comunisti hanno teorizzato e messo in atto il sogno delle destre nazionaliste d’anteguerra: un Paese etnicamente omogeneo, senza ebrei e altre cosiddette minoranze nazionali. I comunisti usavano la nozione democrazia popolare, dove per popolare si intendeva etnico. L’attuale ondata del nazionalismo non arriva dal nulla».

Esiste una memoria geopolitica?
«Certo. Se vuole faccio un ulteriore esempio. Ci furono, durante la seconda guerra mondiale bombardamenti degli italiani e dei tedeschi di Haifa e di Tel Aviv. I raid su Haifa erano dovuti alla presenza delle raffinerie nella città. Ma Tel Aviv venne attaccata per altri motivi e le vittime erano numerose. Ma quei bombardamenti non fanno parte della memoria israeliana, pochissimi ne parlano, perché contraddicono il ricordo della Palestina-Eretz Israel come luogo sicuro, al contrario dell’Europa».

 Mi permetta un ricordo personale. Durante la prima guerra del Golfo, nel 1991, di Tel-Aviv presa di mira dai razzi di Saddam Hussein, mi parlò un cantante, Arik Einstein, nato proprio in quei giorni e in quella città.
«Ma fu una conversazione privata, immagino. I giornali non evocavano quegli eventi».

 Negli ultimi anni assistiamo a una proliferazione di monumenti, targhe, luoghi della memoria. La memoria (il palinsesto di cui parlava) sostituisce la Storia?
«Viviamo in un periodo di disfacimento della Storia, con la S maiuscola come è esistita per circa due secoli, l’Ottocento e il Novecento: una struttura che aveva un suo senso e dove era intrinseca l’idea del progresso».

 Sta parlando dell’Illuminismo. Oggi l’epoca dei Lumi sembra davvero tramontata. Non solo si può dire che la Terra è piatta, ma abbiamo la sensazione che il nesso fra causa ed effetto non sia più chiaro, talvolta addirittura reciso: in politica, in economia, nella vita quotidiana.
«Questione di metafore. Con la scomparsa di Dio, gli studiosi, i filosofi, i pensatori dovevano dare una spiegazione laica delle cose. Per gli oggetti o processi chimici è relativamente semplice. Quando i fenomeni sono astratti, come è astratta la società, hanno fatto ricorso alle metafore, perché non avevano altro modo di definire e raccontare. Così, Hegel definisce la filosofia: “la nottola di Minerva inizia il suo volo sul far del crepuscolo”. E siamo alla citazione di un mito. Adam Smith, il teorico dell’economia, ricorre a Shakespeare e a “Macbeth” per citare “la mano invisibile” (del mercato) e quindi non più la mano di Dio. La metafora è il regno dell’astrazione. E la letteratura è il magazzino delle metafore. Ma oggi, la scienza rende tutto molto concreto, si sta quasi realizzando la profezia di Freud, un re delle metafore prese dalla mitologia greca, per cui un giorno la scienza avrebbe capito e spiegato la biochimica dell’anima. Gli intellettuali non ci sono più perché non c’è astrazione, e con la scomparsa degli intellettuali abbiamo difficoltà a capire la complessità del mondo: comprese le trappole della memoria».

Il futuro della memoria come lo vede? Vivremo senza la storia e solo con una memoria antropologica, come la chiama lei, legata al luogo e alla trasmissione dei ricordi?
«Ho detto prima che la Storia si sta sfaldando, se non altro perché non è più eurocentrica e ci sono altri partecipanti con le loro storie particolari. Ma io penso che un giorno arriveremo a una sintesi. E torno alle origini. Il significato della storia, così come la sua suddivisione in epoche (Antichità, Medioevo, Modernità, con il nostro continente al centro) è un’invenzione occidentale ma la sua validità è universale. Dire che la storia ha un significato equivale, a mio parere, a evocare parole come uguaglianza, libertà, istituzioni democratiche. Ma occorre ricordare che fare Storia senza il lato emozionale, senza prendere in considerazione la memoria di chi legge e ascolta non ha senso».

 Storia universale, memoria critica. Ma un Salvini o un Netanyahu o un Kaczynski non lo capiscono.
«Lo capiscono tutti quanti. Solo che loro trasformano il fenomeno di appartenenza e di memoria in un discorso di paura, di minaccia. Esaltano gli elementi di timore dell’Altro (anche altro dentro di noi) per erigere muri veri e simbolici, per chiudere e non aprire. La loro è una battaglia di retroguardia, stanno cercando di difendere gli aspetti dell’appartenenza che sono da tempo superati dalla vita e dall’esperienza delle persone. E ovviamente per farlo usano la memoria. Ripeto: non sono cinici. Netanyahu è convinto davvero che l’antisemitismo non potrà mai essere sconfitto e quindi che tutti gli ebrei sono minacciati di morte. Kaczynski davvero è figlio di un’idea della Polonia antemurale della Cristianità, e che risale a una certa letteratura ottocentesca, che a sua volta narrava la frontiera fra Polonia e Turchia nel Seicento, e potrei continuare.

Allora, come sconfiggere l’uso che della storia e della memoria fanno le destre nazionaliste?
«Il principale strumento è la critica. Chiedere sempre qual è la genesi delle cose. Mantenere la capacità di giudizio e discernere e distinguere fra fenomeni. Mettere tutto in dubbio. Sarà una ricetta illuministica, kantiana, ma altro non abbiamo».

 

Dan Diner è tra gli storici più lucidi e apprezzati di oggi. Docente di Storia moderna all’Università ebraica di Gerusalemme, esperto di storia e cultura ebraica, ha pubblicato numerosi saggi sulla storia del XX secolo, del Medio Oriente e dell’ebraismo. In Italia i suoi libri più noti sono “Raccontare il Novecento. Una storia politica” e “Il tempo sospeso” (entrambi editi da Garzanti).

CDL, 1 Dicembre 2020

 

 

 

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