Alcibiade Boratto sugli affreschi dialettali di Evaristo Petrocchi

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«Senza l’opera di Evaristo Petrocchi possiamo ben dire che non avremmo memoria di quel dialetto e di quella parte di mondo cittadino, memoria che per noi è tanto cara». Queste le conclusioni del prof. Alcibiade Boratto nella relazione presentata in occasione della celebrazione della figura e dell’opera di Evaristo Petrocchi. Prima considerazione: la lingua è definita dalla letteratura aulica ed il dialetto tiburtino è codificato in poche opere colte, tra le quali indubbiamente e principalmente quella di Evaristo Petrocchi. Seconda considerazione: il prof. Boratto ha voluto sottolineare il carattere storico dei bozzetti dialettali, veri affreschi di una Tivoli ormai scomparsa, i cui tratti sarebbero irrimediabilmente perduti se la memoria non fosse preservata nella descrizione letteraria dei suoi cantori.

Il 26 maggio 2018, a Tivoli, presso le Scuderie estensi, si è svolto l’incontro “Testimonianze poetiche di una Tivoli scomparsa” dedicato alla rievocazione della figura e dell’opera di Evaristo Petrocchi (1870-1944), giurista valente, autore di diversi testi scritti in vernacolo pubblicati su vari giornali e riviste dal 1892 al 1938. Alcuni di questi, quelli scampati al bombardamento nel corso del quale Evaristo Petrocchi perse la vita, furono raccolti negli ormai celebri “Bozzetti dialettali” e pubblicati postumi nel 1956 dalla Società Tiburtina di Storia e d’Arte. La serata dedicata ad Evaristo Petrocchi è stata l’occasione  per presentare una nuova edizione dei Bozzetti, curata dal nipote Sergio. Si riporta la relazione presentata dal prof. Boratto.

 

Ricordo di Evaristo Petrocchi
di
Alcibiade Boratto
.

Vorrei cominciare questo mio intervento con una domanda rivolta a me e a tutti voi: è ancora di attualità parlare del dialetto, quando con Internet è possibile in tempo reale comunicare con persone in ogni parte del mondo. A prima vista può sembrare un anacronismo. Ed è indubbio che l’uso di una lingua, l’inglese, per comunicare tra cittadini di stati diversi e il sempre più frequente spostamento di persone da un paese all’altro per le più varie ragioni ci stanno portando verso un periodo della civiltà umana in cui i dialetti verranno sempre meno parlati.

01 Disegno di C. Muzi
Figura 1. Illustrazione di copertina dei Bozzetti Dialettali (1956). Disegno di C. Muzi.

Però, per quanto forte possa essere la spinta alla unificazione linguistica nazionale e internazionale, una diversità di cultura, di tradizioni, di storia tra i diversi popoli e all’interno di essi resterà sempre e questo avrà inevitabilmente un riflesso sulle parlate locali, perché esse esprimeranno quelle certe identità, quelle peculiarità di comunità, che non potranno mai essere cancellate e che segneranno il senso di appartenenza.

Non dobbiamo inoltre dimenticare che spesso le lingue nazionali hanno attinto vocaboli dalle parlate locali per rinsanguarsi, così come dal vasto patrimonio delle musiche popolari illustri musicisti della seconda metà dell’Ottocento e di inizio Novecento hanno preso temi e motivi, donandoci grandi capolavori.  

Ancora. Molti autori della nostra letteratura hanno voluto scrivere alcune loro opere, o addirittura gran parte della loro produzione, in dialetto, come se questa forma espressiva desse loro più autenticità, consentisse di più di avvicinarsi alla verità umana.

Se li volessimo citare, ci verrebbe alla mente un lungo elenco di nomi illustri, che hanno composto in dialetto meneghino, siciliano, calabrese, napoletano, romanesco e in tanti altri dialetti delle varie regioni italiane. E non soltanto in tempi passati, ma anche ai nostri giorni. Cito, ad esempio, Pier Paolo Pasolini con i suoi struggenti versi in friulano per ricordare atmosfere, luoghi e persone dei suoi soggiorni a Casarsa o le poesie di Ignazio Buttitta, intrise di dolore e ribollenti di rabbia per le condizioni di sfruttamento dei lavoratori della sua regione nelle campagne e nelle miniere di zolfo.

Io penso, dunque, che quanto più il mondo abbatterà confini e sarà largo di opportunità, tanto più l’uomo sentirà il bisogno e la nostalgia delle sue radici.

E qui veniamo alla ragione dell’incontro di oggi, all’importanza di questo pomeriggio, che stiamo trascorrendo in compagnia di Evaristo Petrocchi, le cui qualità di poeta dialettale di una certa Tivoli sono state ormai riconosciute più volte nel passar degli anni da illustri saggisti.

Se è vero che il dialetto ha la capacità di meglio esprimere il carattere di una comunità, di condurci alla conoscenza delle sue virtù e dei suoi difetti, di evocare tradizioni, i bozzetti di Petrocchi sono un’opera di inestimabile valore sotto questo profilo oltre che sotto quello poetico. 

Figura 2. Illustrazione interna dei Bozzetti Dialettali (1956), Disegno di A. Asquini.
Figura 2. Illustrazione interna dei Bozzetti Dialettali (1956). Disegno di A. Asquini.

Egli racconta per noi l’anima della nostra città, o meglio di un certo ceto cittadino, quello più umile e più semplice, che appartiene al nostro passato e che possiamo trovare ancora in certi luoghi cittadini, anche se cambiato in conseguenza di una scolarizzazione diffusa e di esperienze di vita che hanno agito sul loro modo di essere. Oggi la nostra città non è più quella di cui ci ha parlato Petrocchi.

Permettetemi una breve digressione. Tivoli restò abbastanza uguale a se stessa, e quindi a quella descritta dal Petrocchi, fino agli anni Quaranta del Novecento con le sue cartiere, la Pirelli, il turismo d’elite, l’attività agricola e artigianale, legata alle sue tradizioni, alle sue feste, al suo dialetto diffusamente parlato in città tranne che in certi ambienti alto- borghesi, dove il suo uso veniva considerato una sorta di marchio plebeo.

Poi l’evento drammatico, traumatico del bombardamento della città del 26 maggio 1944 segnò uno spartiacque nella storia della città non solo per le distruzioni e le vittime che comportò, ma anche per il cambiamento che si ebbe nel suo tessuto sociale e nelle dimensioni urbane.

A Tivoli confluirono cittadini dalla Valle dell’Aniene e da varie regioni del Meridione: in città c’era lavoro, soprattutto quello necessario per la ricostruzione dei suoi quartieri distrutti.

Così essa crebbe dai suoi 18000 abitanti circa degli anni Quaranta; Villa Adriana da agro tiburtino si trasformò in un grande quartiere; stessa sorte ebbe Bagni; e poi dal nulla venne fuori Borgonuovo; e gli Arci, località agricola, divenne a poco a poco un altro notevole insediamento.

In città, dunque, si sentivano e si sentono dialetti e accenti diversi; prevalente non è più quello tiburtino e, comunque, anche esso è cambiato, ha perduto l’uso di alcuni vocaboli, di cui non si conosce più il significato.

Figura 3. Illustrazione interna dei Bozzetti Dialettali (1956), Disegno di A. Asquini.
Figura 3. Illustrazione interna dei Bozzetti Dialettali (1956). Disegno di A. Asquini.

E se scendete verso Bagni e Borgonuovo, quasi non sentite più il dialetto tiburtino e neanche il suo accento. Tutto questo dimostra la vitalità della storia della nostra città, la sua capacità di accoglienza e di inclusione, però con le inevitabili trasformazioni che ne seguono, anche nella parlata, che delle trasformazioni è specchio ed espressione.

Evaristo Petrocchi è parte di questa storia. Avviciniamoci, dunque, a questa sua Tivoli sparita, lasciandoci guidare da Lui attraverso la conoscenza e la lettura dei suoi bozzetti, che tornano a vedere la luce grazie all’iniziativa di suo nipote Sergio Petrocchi, che ha voluto molto meritoriamente ristampare il volume edito nel 1953 dalla Società Tiburtina di Storia e d’Arte con la prefazione di Giuseppe Petrocchi, fratello dell’autore.

Prendiamo, ad esempio, “ Drento alla bbettula”, dove i personaggi che agiscono sono tutti bene individuati dal loro linguaggio, dalle espressioni usate, dal corso che prende l’incontro tra personaggi diversi dentro un’osteria.

Figura 4. Illustrazione interna dei Bozzetti Dialettali (1956), Disegno di A. Asquini.
Figura 4. Illustrazione interna dei Bozzetti Dialettali (1956). Disegno di A. Asquini.

Avete l’innamorato geloso che, anche a causa dei fumi del vino, si avventa sul grossolano avventore che insidia l’ostessa da lui corteggiata; l’oste preoccupato di riscuotere dai suoi clienti, non sempre in grado di pagare quanto consumato; la vivacità di una partita alla morra o a tresette punteggiata dalle espressioni colorite dei giocatori presi dalla tensione del gioco; e, ancora, un calzolaio, che forse perché leggiucchia qualche giornale locale, si ritiene l’uomo colto della comitiva e, rivolgendosi a un eremita in cerca di elemosina, dice:” Appropinquatevi, reverendissimo…”, usando un’espressione aulica in un contesto di smozzicati dialoghi e di battute dialettali; e, infine, una guardia di città, non proprio padrone della lingua italiana e della sua sintassi, che infila nel suo intervento un tu e un lei senza rispetto delle concordanze con il verbo; però, sa tenere a bada gli alticci protagonisti della scena e, per far loro smaltire sbornia ed ira, riesce ad accompagnarli in caserma, dove, però, essi contano sulla tolleranza di un’altra guardia, compagno di bevute a scrocco della combriccola.  

Un’altra sua composizione che ho sempre molto apprezzata è quella intitolata “La guera co’l’africani”. E’ un bozzetto articolato in quattro momenti, scritto in occasione della guerra dell’Italia contro l’Abissinia nel 1935-36. Qui Petrocchi presenta l’Abissinia, ma più in generale l’Africa, come la immagina il popolo semplice della nostra città. 

Figura 5. Illustrazione interna dei Bozzetti Dialettali (1956), Disegno di A. Asquini.
Figura 5. Illustrazione interna dei Bozzetti Dialettali (1956). Disegno di A. Asquini.

Per il tiburtino incolto, con scarsa dimestichezza con la carta stampata la conoscenza della realtà socio-economica e antropologica si ferma alle sorgenti dell’acqua solfurea.

Il resto del mondo lo percepisce con la sua immaginazione alimentata da quanto circola all’osteria o durante le soste in piazza.

Quando il discorso si porta su popoli lontani, appartenenti ad un continente sul quale gravano pregiudizi che si sommano a distorta informazione fornita dai media, allora nomi,comportamenti, abitudini assumono nella mente semplice del popolano contorni pittoreschi e grossolani.

Quindi per il popolano ritratto da Petrocchi l’Africa è” un paese che sta lontanu, ghioppe la Morea, perché loco la gente è tutta mora, tutta nera, ncumincienno dallu muccu nzinenti alli pedi”. 

Gli abitanti di quella regione non vestono panni né calzano scarpe:” …la gente va nudacchia…camminanu senza scarpi”; e quanto alle loro abitazioni si pensa che:”…campanu drento alle capanne, ando’ magnanu, dormu, stannu tutti nzemi”. Nessuna igiene: “Quella gente non se lava mai lu muccu”.

Però la Morea è un paese ricco, aggiunge il personaggio, pieno di ogni grazia di Dio non sfruttata e il nostro buon cuore ci spinge ad aiutarla e, quindi, “ nui che semo cristiani semo iti loco ghiò….Ci semo fatte le scole, li spidali, le casi, li semo ‘mparati a polisse, a vestisse”.

Oggi un tipo umano del genere Petrocchi forse non lo incontrerebbe più: la televisione, una maggiore diffusione della stampa e della scuola hanno portato il mondo in casa, abbiamo una conoscenza degli altri popoli più aderente alla realtà. Anche se non è poi tanto infrequente constatare, a sentire certi giudizi sugli stranieri, che il tempo è passato invano. 

Figura 6. Illustrazione interna dei Bozzetti Dialettali (1956), Disegno di A. Asquini.
Figura 6. Illustrazione interna dei Bozzetti Dialettali (1956). Disegno di A. Asquini.

Ancora di un bozzetto voglio parlare, intitolato “Le feste de Natale”, composto nel 1892.

E’ costruito con una serie di scenette con le quali si dà una rappresentazione realistica dei giorni che precedono la più importante festa cristiana, santificata come vuole la chiesa, ma anche occasione per qualche scorpacciata e bevuta, rompendo così la sequela di magri pasti alla quale la povera gente è costretta per gran parte dell’anno.

 La folla di personaggi è fatta di contadini, modestissimi artigiani, operai saltuariamente al lavoro, che abitavano i quartieri storici della città, dove si svolgeva prevalentemente la sua attività economica.  

Ma un posto importante nel bozzetto lo occupa la donna, la madre di famiglia, che saltuariamente ha frequentato qualche classe di scuola elementare, rassegnata a sfacchinare dalla mattina alla sera per accudire la famiglia spesso numerosa, non di rado maltrattata da mariti alticci. Sono esse che preparano in casa i dolci, che provvedono a tutte le incombenze per lo svolgimento della festa, che si recano al forno per cuocere quanto preparato.

Figura 7. Illustrazione interna dei Bozzetti Dialettali (1956). Disegno di A. Asquini.
Figura 7. Illustrazione interna dei Bozzetti Dialettali (1956). Disegno di A. Asquini.

E qui, nell’attesa del proprio turno per infornare, scambiano con le altre comari notizie, piccoli pettegolezzi, e talvolta raccontano fatti nati dalla superstiziosa fantasia popolare in cui trovate fattucchiere, stregonerie e diavoli scacciati con il ricorso a pratiche religiose.

Poi, passata la festa, torna la vita di sempre e per di più spesso si ha bisogno del medico per rimediare al malessere procurato dalle non abituali scorpacciate.

“ A nui, pore femmine, natale ci s’arembone sempre”, commenta sconsolata una donna; e un’altra aggiunge:” Va be’ atru che pe li spizziali”.  

Mi avvio alla conclusione. Il mondo rappresentato da Petrocchi, lo abbiamo visto da questi brevi accenni ad alcuni bozzetti, è quello di popolani, per lo più contadini, operai, perdigiorno, legati alle tradizioni cittadine; frequentatori assidui di osterie e caffè; devoti un po’ per scrupolo religioso, un po’ per superstiziose credenze; pronti a cogliere ogni occasione di svago per rompere la monotonia e la durezza del loro vivere quotidiano; chiusi entro orizzonti limitati dalla loro scarsa istruzione e dalla circoscritta esperienza quotidiana; autori di opinioni bislacche e grossolane su eventi storici, popoli e luoghi geografici; rassegnati ad accettare quanto la Provvidenza e la Natura riserva loro ogni anno.

In fondo povere persone, incolte ed umili, con qualche risvolto comico nei loro atteggiamenti, nelle quali vive umanità e bonomia, manifeste nei loro gesti di fratellanza e di solidarietà che affiorano pur tra pregiudizi, battibecchi, piccoli litigi e dicerie di quartiere.

E’ questa umanità che coglie Petrocchi dietro il ritratto divertito e divertente dell’umile popolo tiburtino. Petrocchi non è l’uomo colto lontano dal sentire popolare, che al popolo minuto guarda con distacco e ironia, con l’atteggiamento proprio di chi si trova a livelli alti di preparazione e di sapere.

 Al contrario, è vicino al suo popolo, in mezzo al quale è vissuto a piazza dell’Olmo, sorride di certe sue debolezze, si diverte ad ascoltare i suoi discorsi semplici e i suoi giudizi, quando saggi, quando strampalati, gode ad assistere ai suoi modesti svaghi e giochi, partecipa al piacere che esso prova nella ricorrenza delle feste.

E tutto questo lo rappresenta con la forza del dialetto, con la evidenza e la caratterizzazione che il dialetto sa dare ad uomini e cose, adatto a trasmetterci pensieri e sentimenti che circolavano a quel tempo nella mente e nell’animo dei nostri concittadini.

Senza l’opera di Evaristo Petrocchi possiamo ben dire che non avremmo memoria di quel dialetto e di quella parte di mondo cittadino, memoria   che per noi è tanto cara.

 

Tivoli, 27 giugno 2018

 

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