La Res publica della tradizione romana

 

 

La tradizione romana offre al Repubblicanesimo moderno una concezione complessa della libertà che si compone di almeno due aspetti: l’emancipazione da ogni forma di dipendenza e la legittimità della contestazione. Su questo secondo aspetto basti ricordare gli istituti giuridici di garanzia posti in particolare a tutela della plebe, la provocatio ad populum e l’auxilium tribunicium, che consentivano al semplice cittadino di ricorrere al giudizio dei comizi e alla difesa dei tribuni quando riteneva ingiusta una decisione del magistrato1. Per quanto riguarda il primo aspetto, alcuni storici del pensiero e segnatamente Philip Pettit2 e Quentin Skinner3 sostengono che la concezione romana di libertà, già a partire dall’esperienza repubblicana, si configura con un’accezione “negativa” nel senso che è fondamentalmente basata sull’assenza di vincoli. Tuttavia, rispetto ad altre concezioni negative di libertà che sorgeranno molto più tardi (in epoca moderna), quella romana assume un’accezione molto più larga. Perché un uomo possa essere veramente libero non basta che non subisca condizionamenti (l’assenza di interferenza tipica del pensiero liberale) ma è necessario che si trovi nella condizione di non poterne subire. La libertà come emancipazione da ogni forma di dipendenza (o dominio) non solo attuale ma anche potenziale e la inevitabile estensione al campo dei diritti sociali: questo il contributo della Roma antica all’idea repubblicana di libertà, un contributo che, riscoperto da Machiavelli, sarà la base teorica delle repubbliche rinascimentali italiane; verrà poi adottato nell’Inghilterra della guerra civile ed emigrerà negli Stati Uniti  dove costituirà il fondamento ideologico della guerra d’indipendenza americana; rimbalzerà infine sull’Europa con la rivoluzione francese e, in ultimo, costituirà uno dei fondamenti teorici della democrazia radicale ottocentesca.

E’ appena il caso di precisare che la concezione “negativa” della libertà repubblicana non è, in tutta evidenza, incompatibile con la sussistenza di leggi liberamente approvate e finalizzate a garantirne l’esercizio4. Il concetto di legge come garanzia e non come divieto emerge chiaramente nella celebre polemica che oppose il filosofo Thomas Hobbes ai repubblicani inglesi del suo tempo5. Sosteneva Hobbes, non senza sarcasmo, che i cittadini della Lucca allora repubblicana erano vessati dalle leggi non meno dei sudditi turchi. Rispondeva James Harrington che mentre la libertà dei cittadini di Lucca era assicurata dalle leggi, quella dei sudditi turchi era una concessione del sovrano e poteva essere revocata in qualsiasi momento. Solo i primi potevano dirsi veramente liberi.

  1. Joseph  Plescia . Judicial accountability and immunity in roman law. In: The American Journal of Legal History, 2001, Vol. 45, n. 1, pp. 51–70.
  2. Philip Pettit. Republicanism. A theory of freedom and government. Clarendon Press, Oxford, 1997. Traduzione italiana: Il repubblicanesimo. Una teoria della libertà e del governo. Feltrinelli, Milano, 2000.
  3. Quentin Skinner. Liberty before liberalism. Cambridge University Press, Cambridge, 1998. Traduzione italiana: La libertà prima del liberalismo. Einaudi, Torino, 2001.
  4. Maurizio Viroli, Repubblicanesimo, Bari Laterza, 1999, pp. 30-41.
  5. Democrazia Pura. James Harrington e il repubblicanesimo britannico, 23 Giugno 2014.

Il concetto di libertà che il pensiero repubblicano deve alla tradizione della Res Publica è riassunto da Philip Pettit nell’edizione italiana del suo saggio sul repubblicanesimo.

 

Philip Pettit. Una tradizione romana. In: Il repubblicanesimo. Una teoria della libertà e del governo. Feltrinelli, Milano, 2000, pp 334-336.

Una tradizione romana

La tradizione repubblicana è romana per origine e carattere, benché gli autori romani che l’hanno sviluppata fossero gli eredi di un patrimonio di idee risalenti all’antica Grecia, in particolare di idee di derivazione aristotelica. Questa tradizione emerse parallelamente alle istituzioni della repubblica romana, la sua funzione fu in effetti proprio di legittimare e influenzare la forma di quelle istituzioni, e venne poi sviluppata nell’opera di storici come Polibio, Livio e Plutarco, Tacito e Sallustio, così come nel corpus di scritti dell’avvocato, oratore e filosofo, Marco Tullio Cicerone.

ciceroneIn questi autori romani la libertà del cittadino veniva concepita come quello status che distingue il cittadino dallo schiavo:vale a dire, lo status di chi non deve vivere in potestate domini, alla mercé di un padrone. Era loro precisa convinzione, infatti, che i cittadini potessero godere di una simile condizione solo a patto che gli ordinamenti politici e giuridici costringessero i governanti a orientarsi al bene comune: alla res publica. Ritenevano inoltre che i governanti si sarebbero orientati al bene comune solo nel caso in cui venisse imposto loro di soddisfare vincoli quali il governo della legge, la distribuzione del potere tra molti organi e funzionari, la rappresentanza di differenti classi sociali in differenti forme, la limitazione della durata delle cariche, la rotazione delle cariche tra differenti cittadini, e così via. “La libertà romana consisteva innanzitutto nel fatto di non essere schiavo o soggetto al dominio (dominatio) di alcuno. Ma Livio, Tacito, Sallustio e Cicerone unanimemente concordavano sul fatto che in politica la libertà richiede anche le garanzie offerte da una costituzione repubblicana” (Sellers 1995, p. 97).

Pertanto le tre idee fondamentali di questa tradizione romana sono: una concezione della libertà come non dominio; l’idea che la libertà intesa come non dominio richieda una costituzione che orienti la comunità politica verso il bene comune; e la convinzione che certe forme istituzionali – quelle caratteristicamente romane – debbano in qualche modo far parte di una simile costituzione. La libertà in questa specifica accezione è la condizione goduta da un individuo quando nessuno gli si impone come un padrone. Nessuno può interferire nella sua vita in maniera arbitraria (nessuno può, per esempio, sottrargli delle opzioni o ridurre i benefici che derivano da certe opzioni): nessuno può, cioè, interferire nelle sue azioni senza essere costretto ad attenersi al suo bene riconosciuto. Il governo interferisce nella vita degli individui, attraverso l’imposizione di tasse e di leggi coercitive. Pertanto, qualora nel fare ciò gli venisse consentito di non perseguire il bene comune – in effetti qualora gli venisse consentito di non attenersi agli interessi comuni e riconoscibili degli individui – il suo potere d’interferire assumerebbe un carattere arbitrario e il governo stesso finirebbe per essere un dominus, ovvero un padrone.

Queste idee di derivazione romana hanno conosciuto una seconda giovinezza nel Rinascimento italiano. Il locus classicus sono i Discorsi di Machiavelli, che non erano altro che un commento ad alcuni libri delle Storie di Livio. Machiavelli nutriva un’autentica passione per l’antica Roma e fece propria con grande entusiasmo l’idea che la libertà consista nel non essere dominati; che una condizione di non dominio possa essere raggiunta solo attraverso l’appartenenza a una comunità politica in cui la res publica o il bene comune ispirino le scelte pubbliche; e che una simile comunità debba essere caratterizzata da istituzioni di stampo romano come il governo della legge, la distribuzione del potere, la rappresentanza delle diverse classi, e così via (Viroli 1998).

Le idee neoromane, repubblicane, ebbero grande influenza nell’Inghilterra del XVIIsecolo. Loro sostenitori come Harrington e Sidney adottarono la concezione romana e rinascimentale della libertà e proclamarono che “solo in uno stato libero si può essere liberi” (Skinner 1997, p. 60). Benché i primi sostenitori inglesi di tale concezione neoromana fossero antimonarchici, coloro che ne abbracciarono successivamente le idee cruciali accolsero la tesi che uno stato libero possa essere monarchico a condizione che il monarca sia soggetto alla legge e controllato dalla forza del parlamento.

Queste idee repubblicane ebbero comunque un effetto esplosivo proprio nelle colonie americane della Gran Bretagna, allorché i coloni cominciarono a percepire il potere esercitato dal parlamento britannico sulla propria vita come qualcosa di incontrollato e arbitrario. Anche se il parlamento non si comportava male nei loro confronti – anche se non li tassava in maniera eccessiva – aveva pur sempre il potere di fare ciò che più gli garbava: era effettivamente l’esemplificazione di un potere assoluto. Al tempo della rivoluzione idee del genere furono portate alle estreme conseguenze e celebrate nella loro originale forma romana. “I repubblicani americani si gloriarono dei loro antecedenti classici e rivestirono la loro rivoluzione con il mantello e la maestà dell’antichità romana” (Sellers 1995, p. 19).

Questa breve ricostruzione storica è fedele alla lettura proposta nel libro ma pone più chiaramente in risalto il carattere specificamente romano della tradizione repubblicana. La lettura dei libri di Sellers, Skinner e Viroli , come per altri versi anche la lettura del lavoro di Sandel, Democracy’s Discontent (Sandel 1996), mi ha persuaso che questa sia la scelta più corretta. Come preciserò in seguito, ho imparato molto dal libro di Sandel ma mi ha assai sorpreso l’interpretazione neoateniese che ha erroneamente dato del repubblicanesimo (Pettit 1998). A suo avviso l’essenza del repubblicanesimo americano consiste in una enfatizzazione dei benefici della democrazia partecipativa, in particolare di quel tipo di democrazia che è stata spesso – benché, si dà il caso, erroneamente (Manin 1997, cap. 1) – associata all’Atene classica.

A Sandel sfugge – e questo fatto lo accomuna a una lunga serie di interpreti (cfr. Arendt 1964; Habermas 1996; Uhr 1998, cap. 1) – che i romani e i loro seguaci guardavano all’Atene classica per lo più attraverso le lenti di commentatori ostili come Polibio, da cui derivarono una forte avversione per quella che lo storico greco presentava come la democrazia ateniese (Springborg 1992, cap. 3). In tal modo finirono per condividere la sua predilezione per la costituzione romana, in cui era certamente assegnato un ruolo cruciale all’elezione e alla partecipazione democratica, ma in cui ruoli altrettanto importanti erano riconosciuti al governo della legge, alla distribuzione del potere tra numerosi organi e funzionari, alla rappresentanza di differenti classi sociali in differenti forme, e così via.

Secondo Polibio e altri commentatori, la gloria di Atene era riconducibile essenzialmente al suo popolo, non alla sua costituzione (Polibio 1994, libro 6, 43-44). Infatti, secondo Polibio, con una costituzione del genere poteva accadere che “tutto venisse guidato dall’impulso incontrollato di una plebe” e che lo stato finisse per assomigliare “a una ciurma senza nocchiero”. Nella terminologia di Polibio, questa non è “democrazia” ovvero il governo del “demos” – il governo del popolo in presenza di rigide procedure – ma “oclocrazia” ovvero il governo dell”ochlos”: vale a dire quel tipo di governo popolare che consente ai sentimenti e alle opinioni della maggioranza, ogniqualvolta si materializzino, di spazzare via ogni cosa gli si ponga di fronte (Polibio 1994, libro 6, 57). Quando i fondatori del nuovo stato americano si schierarono contro il dispotismo elettivo, così come altri nella loro tradizione si erano schierati contro la democrazia pura, non stavano ridefinendo le coordinate repubblicane: non facevano altro che procedere nella direzione che la tradizione repubblicana aveva da sempre indicato.