Trump il latinista

 

 

Da giorni il Presidente degli Stati Uniti sta tempestando i social ed i mass media con lo slogan “No quid pro quo” che, nella cultura anglosassone, ha più spesso il significato generico di scambio che non quello specifico di equivoco. La vicenda è nota. Donald Trump è accusato di aver chiesto al neoeletto Presidente dell’Ucraina, Volodymyr Zelenskyj, di aprire un’inchiesta per dimostrare il comportamento illecito di Joe Biden, suo probabile avversario nelle elezioni presidenziali, in un affaire riguardante un’azienda ucraina di produzione del gas. Secondo l’accusa Trump intendeva proporre lo scambio tra l’apertura dell’indagine e l’erogazione di aiuti militari per un valore complessivo di ben 250 milioni di dollari. E’ appena il caso di ricordare che di questi aiuti l’Ucraina ha un disperato bisogno dovendo fronteggiare i ribelli filo-russi in una guerra feroce che si combatte in una delle sue regioni orientali, il Donbass.

Da quando l’accusa è stata formulata, il Presidente ad ogni piè sospinto ripete “No quid pro quo”, con ciò negando non la richiesta fatta al suo omologo ucraino ma lo scambio con gli aiuti militari. Insomma Trump nega il ricatto spregevole. Ma perché utilizzare un latinismo non proprio amichevole, tanto più in un Paese di lingua inglese (ma lo sarebbe anche in Italia).

La satira si è subito scatenata. Sulle televisioni americane è diventato virale un video nel quale Trump ripete ossessivamente lo slogan seguito da commentatori che si impappinano nel disperato tentativo di pronunciarlo. Nei social proliferano vignette sull’argomento.

Vignetta fi Dave Granlund, 29 ottobre 2019.

In effetti la scelta dello slogan operata dallo staff di Trump appare quantomeno singolare. E’ come se un rapinatore anziché il classico “O la borsa o la vita” gridasse “Quid pro quo” lasciando alla vittima l’onere di comprendere il messaggio. Oppure è come se la mafia anziché fare “proposte che non si possono rifiutare” preferisse incomprensibili “quid pro quo” (l’esempio è tratto da un articolo di Enrico Deaglio pubblicato di recente su un Venerdì di Repubblica). Analogamente, i ricatti politici devono essere sempre espliciti anche quando si utilizzano perifrasi ambigue e, pure in questo ambito di nicchia, a nessuno verrebbe in mente di pronunciare un “quid pro quo”. Negli ambienti appena più colti per definire uno scambio di favori si potrebbe al massimo utilizzare il più diffuso “do ut des” ma mai e poi mai un “quid pro quo”. Altrimenti il capostazione potrebbe azionare non lo scambio dei binari ma un quid pro quo delle rotaie. Per non parlare di cosa accadrebbe in un club di scambisti se si usassero i latinismi. E come dovremmo chiamare i commutatori elettrici? Un quid pro quo di elettroni?

La scelta di Trump, si diceva, è difficile da spiegare. Già in Italia non sono tanti coloro che hanno studiato il latino e sono pochissimi quelli che ne conservano una conoscenza appena sufficiente. Nei Paesi anglosassoni si suppone che questa quota di persone sia ancora inferiore. Ma allora perché Trump usa una incomprensibile (ai più) perifrasi latina? Forse perché non vuole illustrare un concetto ma sorprendere gli interlocutori e metterli in difficoltà. Ed anzi più che sorprendere forse vuole sbalordire e più che mettere in difficoltà intende generare confusione. Stia attento però Trump,  perché, come sosteneva Quintiliano, “Orationis summa virtus est perspicuitas” (La più grande virtù di un discorso è la chiarezza).

 

CDL, 8 novembre 2019

 

Vignetta di Clay Jones

 

 

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