La guerra di indipendenza americana: una rivoluzione repubblicana

 

 

Al termine di un lungo percorso quell’idea di libertà che oggi è definita repubblicana troverà piena espressività politica ed istituzionale con la nascita della nazione americana. Infatti, proprio con la Dichiarazione di Indipendenza del 1776, dopo una lunga incubazione teorica, si afferma sul piano politico un principio di libertà diverso da quella comunitario e da quello liberale che si sostanzia nella forma istituzionale repubblicana e da cui scaturiscono alcuni valori fondamentali: l’affermazione dei diritti inalienabili e, contestualmente, dell’eguaglianza; la partecipazione di popolo e l’autodeterminazione; l’emancipazione da ogni forma di tirannia e la positività del conflitto. Nella rivoluzione americana questi valori non rimasero confinati all’interno di una élite intellettuale ma animarono una vera guerra di popolo.

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Introduzione

John G. A. Pocock sostiene che nelle riflessioni dei rivoluzionari americani, in particolare di Thomas Jefferson (1743-1826) e James Madison (1751-1836), divenne progressivamente prevalente proprio l’idea repubblicana così come essa era stata introiettata e rielaborata nella cultura britannica a partire dal pensiero rinascimentale italiano1. Tale processo risulterà così profondo che la rivoluzione americana può essere considerata “l’ultimo grande atto dell’umanesimo civile del Rinascimento”2.

Attraverso la identificazione di un linguaggio omogeneo sul piano semantico, Pocock procede alla ricostruzione della tradizione repubblicana, la cui scoperta risulta così decisiva da destrutturare completamente il pensiero politico contemporaneo, compreso quello di derivazione marxista,  laddove esso interpreta la storia moderna come un processo di progressiva affermazione del liberalismo. Proprio a seguito delle discussioni che seguirono il lavoro di Pocock, un settore sempre più ampio di storici ha iniziato a rileggere la vicenda americana, tradizionalmente interpretata come liberale e lockiana in particolare, secondo i canoni alternativi della rivoluzione repubblicana.

 

Un’idea di libertà

01 Rivoluzione-americana-1776
Bandiera americana del 1776

Nella vicenda americana, il pensiero di Locke è presente nel contrattualismo e nel giusnaturalismo razionalistico che costituiscono il substrato ideologico dei diritti inalienabili affermati nella Dichiarazione d’Indipendenza3. Ma a fornire l’apparato culturale contribuisce in misura preponderante il repubblicanesimo dell’Inghilterra puritana. Pocock4 sostiene che l’humus culturale dal quale scaturisce la guerra d’indipendenza americana è saldamente ancorato alla tradizione del repubblicanesimo britannico di derivazione aristotelica e machiavelliana. I valori di riferimento di tale cultura erano infatti l’ideale civile, il patriottismo, il diritto di proprietà, la piena realizzazione dell’uomo attraverso una partecipazione politica attiva come clausola di salvataggio di fronte alla corruzione, la tendenza naturale a far prevalere gli interessi generali su quelli di parte. Riecheggia così il tema dello zoon politikon della polis greca, quello di virtù della res publica romana e quelli di vita activa e corruzione di derivazione machiavelliana che tanta influenza avevano avuto sulla genesi del repubblicanesimo britannico.

Ma, soprattutto, è l’idea di libertà che ispira la rivoluzione ad essere repubblicana e non liberale. Nelle riflessioni dei padri fondatori degli Stati Uniti la libertà è molto di più di quanto contenuto nell’accezione negativa della semplice non interferenza di matrice liberale. Per Locke la libertà si identificava con quei diritti individuali inalienabili che occorreva proteggere dall’interferenza dell’autorità. Molto più ampia ed articolata la concezione repubblicana che mescola invece elementi della libertà positiva (la partecipazione attiva e la legge come strumento di autodeterminazione) con quelli di una libertà negativa sostanzialmente diversa perché non limitata alla non interferenza ma estesa alla non dipendenza. Perché l’uomo possa essere veramente libero non è sufficiente che non subisca interferenze ma è necessario che non si trovi nella condizione di subirle. E questo, secondo Philip Pettit5 e Quentin Skinner6, con una differenza di accenti che non pregiudica la sostanziale omogeneità di analisi, è un elemento decisivo della libertà repubblicana. In proposito è esemplare la polemica che oppose James Harrington (1611-1677) a Thomas Hobbes (1588-1679) i cui contenuti sono già stati riportati in altra parte del sito7:

«Hobbs, non senza sarcasmo, aveva sostenuto nel Leviatano che i cittadini della Repubblica di Lucca erano sottoposti a leggi non meno severe dei sudditi di Costantinopoli: ”Ai nostri giorni sulla cinta delle mura della città di Lucca è incisa a caratteri cubitali la parola LIBERTAS; nondimeno non vi è alcuno che possa concludere da questo fatto che lì un singolo individuo abbia più libertà o immunità rispetto ai suoi doveri verso lo stato di quanto ve ne sia a Costantinopoli. Uno stato può essere popolare o monarchico, la libertà rimane sempre la stessa”. Con questa immagine Hobbs, sostenitore dell’assolutismo monarchico, si serviva strumentalmente degli argomenti liberali per stigmatizzare la coercizione comunque insita in qualsiasi legge. Harrington aveva buon gioco ad evidenziare  questa strumentalità e ne “La Repubblica di Oceana” precisava: “La montagna ha partorito e tutto quello che rimane è un piccolo equivoco! Infatti sostenere che un cittadino di Lucca non abbia più libertà o immunità dalle leggi di Lucca che un turco da quelle di Costantinopoli, e sostenere che un cittadino di Lucca non abbia più libertà in virtù delle leggi di Lucca che un turco in virtù di quelle di Costantinopoli, significa dire due cose completamente diverse”. In questo modo Harrington afferma due aspetti inerenti il principio di libertà. Innanzitutto sembra irridere ad una concezione, quella della legge come coercizione in sé, che prescinde  dal suo contenuto potendo la legge stessa essere strumento di promozione dell’autodeterminazione degli uomini (idea positiva di libertà).  In secondo luogo afferma il valore della legge come garanzia nei confronti del potere non limitata all’interferenza ma estesa alla possibilità stessa dell’interferenza (idea negativa di libertà). Affinché un uomo possa essere libero non solo è necessario che non subisca coercizioni (come i sudditi di Costantinopoli) ma anche e soprattutto che non possa subirne (come i cittadini di Lucca).  Per Harrington mentre i sudditi turchi erano semplici locatari sia dei beni materiali che di quelli immateriali di cui usufruivano, i cittadini di Lucca ne erano titolari in virtù delle leggi della Repubblica. In sostanza la libertà dei sudditi di Costantinopoli era una concessione del sovrano mentre quella dei cittadini di Lucca era garantita dalla leggi. Una differenza non da poco.».

02 Dichiarazione-di-indipendenza-usa-4-luglio
Dichiarazione d’Indipendenza del 1776

Questa complessa concezione della libertà, in parte positiva e in parte negativa, contiene intrinsecamente l’accezione dell’emancipazione politica, economica e sociale e trova la sua naturale espressione istituzionale nella forma repubblicana.

A questo punto diventa più chiaro il passaggio compiuto da alcuni storici che dall’identificazione di una tradizione ideale sono giunti a sviluppare un nuovo criterio di analisi della realtà storica. Per lunghi anni nel pensiero occidentale la storia moderna è stata interpretata come espressione della progressiva affermazione del liberalismo, moderno per alcuni, borghese per gli autori marxisti. Oggi, alcuni storici ritengono che il repubblicanesimo possa essere utilizzato “come criterio alternativo per una lettura dell’intera vicenda storica moderna sino al punto di arrivo costituito proprio dalla rivoluzione americana, non più una storia liberale ma vero compimento dell’idea repubblicana e di una tradizione storica secolare8. Andando oltre gli eventi americani, si può aggiungere che le rivoluzioni europee del biennio 1848-1849 rappresentano pure una vicenda paradigmatica sotto il profilo dell’affermazione di un’idea di libertà che è in parte positiva (l’unità della nazione come costituzione di una comunità necessaria all’autodeterminazione) e in parte negativa (l’indipendenza nazionale e l’emancipazione sociale come liberazione da ogni forma di dominio). Anzi, forse proprio nelle avvenimenti quarantotteschi si può meglio cogliere come gli aspetti positivi e quelli negativi della libertà repubblicana si conciliano sul piano teorico e politico se letti in successione e non in parallelo.

 

L’incontro definitivo con l’uguaglianza

Ma si torni alla vicenda americana. Si è detto che nella cultura anglosassone la guerra d’indipendenza è oggi interpretata come affermazione di una complessa idea di libertà che trova la sua traduzione istituzionale nella forma repubblicana. La maturazione definitiva di questa idea avviene con la rivoluzione americana, quando il principio di libertà incontra quello di uguaglianza nella su accezione formale secondo la definizione di Norberto Bobbio9.

A questo proposito va ricordato che una figura centrale nella fase preparatoria della rivoluzione è Thomas Paine (1737-1809), inglese di nascita, considerato uno dei padri fondatori degli Stati Uniti, protagonista di due rivoluzioni (quella americana e quella francese). Egli esprime una concezione di democrazia repubblicana che nasce sull’affermazione dei diritti dell’uomo e su un senso di appartenenza alla comunità legato alla consapevolezza di una utilità comune (anche e soprattutto economica) che viene proposta in termini fortemente solidali. Un utilitarismo radicale coniugato con un solidarismo altrettanto radicale10. E’ da questa concezione che avrebbe tratto ispirazione Thomas Jefferson (1743-1826) nell’estendere la Dichiarazione d’Indipendenza11. La quale, tuttavia, sembra andare ben oltre l’utilitarismo quando afferma “che tutti gli uomini sono creati eguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, che tra questi diritti sono la Vita, la Libertà, e il perseguimento della Felicità”.

E’ così che il concetto di uguaglianza esce dalla riflessione filosofica per entrare sulla scena politica con una forza così prorompente da assumere carattere normativo (quando la Carta dei Diritti verrà inserita nella Costituzione americana). L’uguaglianza certo era stata oggetto di una lunghissima riflessione filosofica (dallo stoicismo al cristianesimo, da Hobbs a Locke, da Rousseau a Kant)  ma non aveva ancora trovato piena espressione politica. Limitata da Machiavelli agli aspetti politici,  estesa da Harrington all’ambito economico, con la rivoluzione americana l’uguaglianza diventa valore di carattere universale al pari della libertà. E certo non è un caso. Si è detto che un aspetto decisivo della libertà repubblicana è costituito dalla partecipazione attiva dei cittadini alla vita della comunità. Proprio la necessità che l’individuo ha di rapportarsi con gli altri per la crescita civile, politica e sociale della comunità rende la libertà repubblicana particolarmente recettiva al concetto di uguaglianza e tecnicamente in grado di recepirne l’innesto.

03 Carta dei diritti approvata nel 1789
Carta dei Diritti approvata nel 1789 e ratificata nel 1791

Spesso si ricorda la contrapposizione tra il repubblicano democratico Thomas Jefferson ed il liberale conservatore Alexander Hamilton (1755 o 1757-1804), il primo autore della Dichiarazione di Indipendenza del 1776, il secondo uno degli artefici della Costituzione federale del 1787. Secondo Bertand Russell12, Jefferson era erede di una tradizione repubblicana classica che risaliva alla concezione greca e romana della virtù, credeva nei diritti naturali inviolabili, pensava ad una democrazia fondata sulla equa distribuzione della piccola proprietà terriera. Hamilton era ispirato prevalentemente dalla concezione protestante, non confidava assolutamente nella virtù degli uomini, sosteneva apertamente una forma di governo dominato dalla aristocrazia industriale. Ma forse, a ben guardare, proprio l’adesione di Jefferson al principio di uguaglianza contribuisce in misura decisiva a rendere il suo pensiero molto diverso da quello di Hamilton.

Se lo scontro tra i due fu reale, ed è accertato, meno convincente è la tesi che la Costituzione voluta da Hamilton negherebbe la Dichiarazione di Jefferson. Pocock afferma espressamente che la Costituzione fu il frutto della rivoluzione non solo dal punto di vista della continuità storica ma proprio sotto il profilo dei contenuti13. D’altronde, se è vero che la Dichiarazione di Indipendenza e la Costituzione federale esprimono sensibilità politiche diverse, è altresì vero che anche la Costituzione approvata in prima istanza poco ha a che vedere con l’idea iniziale, fondamentalmente di tipo monarchico-aristocratico, cui pensava Hamilton quando sosteneva l’elezione a vita  di presidente e senatori e la nomina dei governatori da parte del presidente. A maggior ragione questo è vero quando, nel 1789, proprio su sollecitazione di Jefferson fu introdotta nella Costituzione americana la Carta dei diritti che riprendeva e specificava i principi affermati nella Dichiarazione, tra i quali quello dell’eguaglianza naturale (l’approvazione risale al 1789, la ratifica al 1791).

In questa sede, dove si intende solo introdurre quella fase del processo di affermazione del repubblicanesimo che fu la rivoluzione americana, basti considerare che l’idea aristocratica del governo viene ad Hamilton dalla convinzione che la democrazia comporti troppi rischi di violenza. E  già questo, prima ancora della sua concezione istituzionale, lo colloca al di fuori di quella tradizione repubblicana che, a partire da Machiavelli, fece del conflitto lo strumento fondamentale del progressivo assestamento delle istituzioni su equilibri sempre più avanzati e sempre più rappresentativi della complessità sociale14. E d’altronde nella stessa Dichiarazione d’Indipendenza veniva affermato: “ogni qualvolta una qualsiasi forma di governo tende a negare questi fini, il popolo ha diritto di mutarla o abolirla e di istituire un nuovo governo fondato su tali principi e di organizzarne i poteri nella forma che sembri al popolo meglio atta a procurare la sua Sicurezza e la sua Felicità”. E’ vero comunque che la Costituzione oscurò in qualche modo la Dichiarazione  e la sua approvazione fu propagandata in modo tanto pervasivo che ancora oggi, nell’immaginario collettivo, quando si parla di affermazione dei diritti dell’uomo la memoria corre alla dichiarazione francese del 1789 e non a quella americana del 1776.

04 Washington_Crossing_the_Delaware_by_Emanuel_Leutze,_MMA-NYC,_1851
Il Passaggio di Washington sul Delaware. Emanuel_Leutze, MMA-NYC, 1851

 

L’influenza sulla democrazia europea

05 Immagine Mazzini in prima pagina, Democratic Review Vol. 30, n 163 (Jan 1852)
Nel 1852, la Young America, fazione estrema ma influente del partito democratico americano, pubblica un immagine di Mazzini sulla prima pagina della propria rivista “Democratic review”, Vol. 30, n 163 (Jan 1852)

L’onda lunga della guerra d’indipendenza americana si riverserà in Europa ed in particolare sulla Francia dove sta maturando la svolta epocale della rivoluzione francese. Sebbene attraverso percorsi non facilmente intellegibili che saranno oggetto di uno specifico contributo.

Di certo comunque la rivoluzione americana influenzò non poco la democrazia europea ed il pensiero mazziniano in particolare. A questo proposito Roland Sarti15 ha affermato che il punto di origine e di incontro delle diversi correnti democratiche è proprio il repubblicanesimo, inteso non tanto e non solo come forma istituzionale quanto come concezione generale dei diritti politici e della partecipazione di popolo. Molti i contatti che Mazzini stabilisce con gli ambienti politici e protestanti americani che egli sollecita ad appoggiare la causa nazionale e la democrazia europea. Sarti commenta: “Aveva preso sul serio gli Stati Uniti come sostegno alla causa repubblicana nel resto del mondo, unico in questo tra i repubblicani italiani, che ne apprezzavano le istituzioni politiche più che lo spirito democratico. Mazzini, critico delle istituzioni, faceva affidamento invece sullo spirito evangelizzatore degli Stati Uniti”. Di recente, Edoardo Marcello Barsotti16 ha sottolineato l’interesse politico di Mazzini che guardava agli Stati Uniti come centro organizzativo di irradiazione della rivoluzione nel mondo e quello culturale di Saffi che considerava la rivoluzione americana come un modello ideologico utilizzabile anche in Europa. Il testo di Barsotti è interessante anche perché riassume la letteratura precedente relativa ai rapporti intensi che intercorsero tra Mazzini e la democrazia americana. Non a caso il pensatore genovese godrà di grande credito negli Stati Uniti anche dopo la morte. Il presidente americano Wilson, non appena giungerà a Genova, nel 1919, andrà a rendere omaggio al monumento di Mazzini con l’intenzione esplicita di stabilire la continuità tra il mazzinianesimo e quella sua visione idealistica che prenderà appunto il nome di wilsonismo. Ma i complessi e reciproci rapporti che si stabiliscono tra il pensiero mazziniano e la democrazia americana costituiscono un capitolo vasto che verrà affrontato in altra sede.

 

CDL, Tivoli, 15 Luglio 2014

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1. Si veda in proposito: Democrazia pura, James Harrington e il repubblicanesimo britannico, 23 giugno 2014.

2. Si veda pag. 781 di: John G. A Pocock. Il momento machiavelliano. Il pensiero fiorentino e la tradizione repubblicana anglosassone. I. Il pensiero politico fiorentino. II. La «repubblica» nel pensiero politico anglosassone. Il Mulino, Bologna, 1980. L’edizione originale in inglese, The machiavellian moment. Fiorentine political throught and the atlantic republican tradition, è stata pubblicata nel 1975 a Princeton dalla Princeton University Press.

3. Giovanni Dessì. La Rivoluzione americana: tradizione e progresso. In C. Vasale, & P. Armellini (a cura di), La democrazia nell’età moderna , pp. 137-153. Soveria Mannelli, Rubbettino, 2008.

4. John G. A. Pocock. The machiavellian moment, cit.

5. Philip Pettit. Republicanism. A theory of freedom  and government. Clarendon Press, Oxford, 1997. Philip Pettit. Il repubblicanesimo. Una teoria della libertà e del governo. Feltrinelli, Milano, 2000.

6. Quentin Skinner. Liberty before liberalism. Cambridge University Press, Cambridge, 1998.
Quentin Skinner. La libertà prima del liberalismo. Einaudi, Torino, 2001.

7. Democrazia pura, “James Harrington e il repubblicanesimo britannico”, cit.

8. Diversi aspetti di questa rivisitazione storica sono contenuti in altri contributi pubblicati  in altra parte del sito ed in particolare in: Democrazia Pura, Storici contemporanei e repubblicanesimo moderno, 31 dicembre 2013; Democrazia Pura, Attualità del repubblicanesimo, 20 gennaio 2013.

9. Norberto Bobbio. Liberalismo e Democrazia. Simonelli, Milano, 2006.

10. Di recente Thomas Casadei ha proposto un’ampia e profonda riflessione sul pensiero di Paine discutendo anche la sua relazione con la tradizione repubblicana. Si veda Thomas Casadei. Tra ponti e rivoluzioni. Diritti, costituzioni, cittadinanza in Thomas Paine. Torino, Giappichelli, 2012. Si veda anche: Tra ponti e rivoluzioni. Il segno di Tom Paine nella storia e nel diritto. Dialogo con Thomas Casadei a cura di Sauro Matterelli. In: Il senso della Repubblica, n° 4, Aprile 2013.

11. Giovanni Dessì, cit.

12. Bertrand Russell. Storia delle idee del secolo XIX. Parte III. La democrazia in America. Capitolo XXI. La democrazia jeffersoniana, pp 321-349. Torino, Mondadori, 1963.

13. Si veda referenza 2.

14. Per l’accezione progressiva attribuita al conflitto nella tradizione repubblicana, così come essa è definita negli studi di Marco Geuna, si veda “Il ruolo discriminante dell’idea di conflitto” in:  Democrazia pura. Il repubblicanesimo di Machiavelli: un’eredità discussa. 1 marzo 2014.

15. Roland Sarti. La democrazia radicale: uno sguardo reciproco tra Stati Uniti e Italia. In: La democrazia radicale nell’Ottocento europeo, a cura di Maurizio Ridolfi. Milano, Feltrinelli, pp 133-157, 2005.

16.Edoardo Marcello Barsotti. Difendere la grande repubblica: Mazzini, Saffi e la guerra civile americana. In: Il Pensiero Mazziniano, 2: 82-138, 2012.

 

 

 

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