Renzi non vince più. E nemmeno il PD.

 

 

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Non servirà cambiare segretario e premier e nemmeno sostituire i ras locali con altri di propria fiducia, magari di bella presenza. Bisogna proprio cambiare politica. E riformare profondamente la struttura di partito. Altrimenti vincerà il populismo.

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Renzi ha stravinto le elezioni europee del maggio 2014 ma da allora arranca ed ha perso sia le regionali del 2015 che, in misura ancora maggiore, le comunali del 2016. Sulle ragioni dell’ultimo risultato elettorale il dibattito è ancora aperto.

 

Il PD prima di Renzi

Scrive Ezio Mauro su “La Repubblica”: “La sinistra ha un leader, e nient’altro: l’eredità storico-politica, che fa parte della storia migliore del Paese, è stata derisa e svenduta a saldo, come se le idee e gli uomini si potessero rottamare al pari delle macchine. Ma dopo il salto nel cerchio di fuoco, spenti gli applausi, rimane solo la cenere1. Lasciando intendere che sia stato Renzi a svendere quelle idee. Trascura, Mauro, di spiegare cosa era rimasto nel PD di quelle idee. Perché il punto è proprio questo.

A parte l’onestà morale e intellettuale di alcuni autorevoli esponenti (e in particolare di Bersani), quali valori possono essere attribuiti alla classe dirigente dell’ultimo PD? Mettendo da parte gli inutili proclami, compresi i programmi elettorali, quali valori traspaiono dalle proposte concrete del PD, dalla bicamerale ad oggi? E negli ultimi anni, quelli dei Governi Monti e Letta, quali sono state le istanze portate avanti dal PD? Ed infatti, Guido Crainz nega che la sconfitta del premier possa essere attribuita al tradimento di una cultura di sinistra che, egli ritiene, si era già esaurita2 e di cui, si potrebbe aggiungere, la vacuità delle proposte è solo una dimostrazione plastica.

Certo la povertà di idee non è solo un fatto italiano ma riguarda l’intera sinistra democratica mondiale. E non da oggi ma almeno da quando la crisi petrolifera del 1973 ed il conseguente rallentamento della crescita economica resero difficilmente sostenibile lo Stato sociale così come esso era stato edificato in Europa e negli USA. Fu allora che cominciò ad emergere un nuovo paradigma di matrice liberista che poi si affermerà definitivamente negli anni successivi con lo Stato minimo e la deregulation di Reagan e della Tatcher. Un paradigma di cui viviamo ancora la coda e gli effetti del clamoroso fallimento. Ma la sinistra non ha saputo avanzare una proposta alternativa se non richiamandosi ad un generico modello keynesiano che andava invece rivisitato profondamente alla luce della nuova congiuntura economica. Qualcuno ricorderà che la socialdemocratica europea in quel periodo riscoprì addirittura l’autogestione3. Una proposta che, fortunatamente, durò lo spazio di un mattino.

Matteo RenziNella crisi delle idee la pratica politica della sinistra ha finito per identificarsi con una gestione del potere come mero (e alquanto flebile) strumento di interdizione nei confronti delle destre. E con l’andare del tempo è emersa la tendenza ad utilizzare il potere allo scopo di tutelare  una classe dirigente senza più un orizzonte, arroccata su stessa, scarsamente ricettiva ai bisogni anche immateriali espressi dai cittadini. E’ quanto accaduto al PD che, come sostengono molti autorevoli osservatori in questi giorni, è diventato un partito autistico, sordo all’ascolto, insensibile alle sollecitazioni che salgono dalla società civile. Ma se questo è vero, è vero non da ora. Da anni il Partito Democratico è divenuto un coacervo di centri di potere (nazionali e locali), in massima parte eredi più o meno legittimi di una tradizione antica: dalla Lega delle Cooperative, coinvolta in decine di scandali, al Monte dei Paschi di Siena, rappresentante tipico di un sistema bancario malato. Sino alle consorterie locali nelle quali il partito democratico si è frantumato e che sono state all’origine di non pochi episodi di malaffare (paradigmatica, nei suoi aspetti anche violenti, la vicenda di Roma). Tutti questi potentati hanno sostenuto Renzi nella sua travolgente ascesa, prima alla segreteria di partito e poi al governo, nel tentativo di trovare un nuovo referente che fosse garante degli interessi economici e politici di cui erano divenuti portatori. E non a caso la rottamazione di Renzi ha riguardato D’Alema e qualche altro dirigente nazionale mentre non ha toccato la struttura profonda del partito.

In Italia a favorire questa involuzione, oltre alla crisi dei valori, ha concorso un ulteriore fenomeno. Con tangentopoli è venuto meno un sistema partitico centralizzato e sono emersi gilde e potentati locali che pure hanno necessità di sostenersi e spesso ricorrono a meccanismi di finanziamento non limpidi. E’ quanto emerge dagli scandali sull’uso dei fondi regionali, dal caso Fiorito a quelli successivi verificatisi in molte Regioni. Oppure basti pensare agli scandali di Roma e Venezia e a tutti quelli analoghi che si sono verificati prima e dopo. In altri termini la crisi dei partiti tradizionali, ed il venir meno di un controllo centralizzato, ha creato un sistema di satrapie periferiche voraci, costose e portatrici di interessi spesso illegittimi. Con la conseguenza che il malaffare è cresciuto. Questo è vero per la destra ma vale anche per il PD la cui struttura portante è ormai costituita da un aggregato di potentati non più ancorati ad una vision complessiva. Tutto questo è accaduto nel silenzio complice della vecchia guardia PD.

Renzi ha preso atto di questa realtà e l’ha sfruttata a proprio vantaggio offrendosi come nuovo punto di riferimento per un struttura di partito magmatica, parcellizzata e intimorita dalla “non vittoria” di Bersani. Pensava forse di potersene emancipare. Invece si è trovato a dover pagare tutte le ipoteche accese. Renzi è il sintomo, non la causa della malattia del PD.

Ma il premier ci ha aggiunto del suo. E per comprenderlo appieno occorre ripartire dalla vittoria alle elezioni europee del 2014 e dai due fattori che la determinarono:  il bonus degli 80 euro e l’aura di novità assoluta che circondava la figura del premier.

 

Il bonus degli 80 euro

Il bonus degli 80 euro fu certamente un catalizzatore potente di consensi. Esso dimostrava un’attenzione concreta verso i ceti che maggiormente avevano patito la crisi (e che rappresentano la quota maggioritaria dell’elettorato). Il provvedimento, si disse, riguardava i “penultimi” (dal momento che ne avrebbero usufruito i dipendenti con un reddito lordo compreso tra 8.000 e 24.000 euro all’anno) ma lasciava presagire ulteriori misure di redistribuzione del reddito a favore dei più deboli. Misure che però non sono arrivate. Al contrario, il Governo ha proceduto all’abolizione indiscriminata dell’IMU, al taglio dell’IRAP, al salvataggio quanto meno opaco di alcune banche, al jobs act. Tutti provvedimenti certo non a favore dei più deboli e semmai utili ad attrarre consensi dal blocco sociale costituitosi negli anni attorno alla destra forza-leghista. Forse Renzi pensava di ripercorrere la strada di Blair: tenere i consensi a sinistra e guadagnare i ceti moderati. Una prospettiva che non si è realizzata per la semplice ragione che quel blocco sociale non è affatto moderato ma ha connotazioni estremiste e, per certi aspetti, persino eversive. Non da oggi ma sin dalla sua costituzione sotto l’abile regia di Berlusconi. Al punto che, quel blocco sociale, è rimasto ancorato alle Lega (in alcuni territori) o ha preferito rivolgersi al M5S (nel resto d’Italia).

Si aggiunga inoltre che la ripresa economica, sulla quale Renzi contava già al momento di sostituire Letta, si è rivelata invece molto debole e largamente insufficiente a produrre effetti sociali significativi. La crisi in realtà ha continuato a mordere come prima e del lieve miglioramento degli indicatori economici non si è accorto quasi nessuno di quelli che erano stati travolti (gli ultimi, non meno numerosi dei penultimi).

A questo punto Renzi avrebbe dovuto scegliere una direzione precisa in politica economica e quindi sociale. Quando le risorse pubbliche da investire sono molto scarse, esse vanno concentrate: o si sostengono i consumi delle famiglie o si finanzia l’impresa. Il premier si è barcamenato con provvedimenti che sono risultati complessivamente inadeguati perché andavano ora in una direzione ora in un’altra. Ma invece di ammettere le difficoltà Renzi ha continuato la sua narrazione ottimistica suscitando una avversione sempre più stizzita in amplissimi settori sociali. 

 

La rottamazione

Tuttavia il bonus degli 80 euro non fu la sola ragione che portò il premier allo straordinario successo delle europee. E’ bene ricordare che esso sarebbe arrivato solo dopo le elezioni, che al momento di votare nessuno ne aveva ancora usufruito e che sembrava legittimo più di qualche dubbio sulla reale possibilità di realizzare quella promessa.

L’impressione è che il successo delle europee fosse legato anche a fattori più generali e segnatamente al fatto che Renzi venisse percepito come una novità assoluta in un momento in cui l’ostilità verso la vecchia classe politica era divenuta profondissima. In Italia come nel resto d’Europa. In sostanza Renzi trionfò alle europee anche e forse soprattutto sull’onda della rottamazione, il brand che già lo aveva portato a vincere le primarie per la segreteria del PD, e che rappresentava una risposta “politica”, sia pure molto generica, alla voglia di cambiamento degli elettori e al rigetto nei confronti della classe politica che aveva governato sino ad allora. Sia la rottamazione di Renzi che l’antipolitica di Grillo rispondevano a questa esigenza. Il M5S aveva già raggiunto consensi incredibili proprio facendo leva sulla critica feroce alla casta ed il populismo anti-politico già emergeva prepotentemente in tutta Europa. La rottamazione poteva sembrare un approccio più ragionevole rispetto alla critica distruttiva ed una speranza fondata sulla quale ricostruire il Paese.

Ma cosa intendeva Renzi per rottamazione? Partendo dall’assunto che la grave crisi del Paese fosse dovuta ad una classe dirigente inetta ed incapace di risolvere i problemi, egli proponeva un ricambio generazionale che nella sua narrazione assumeva il significato di un rinnovamento politico profondo sebbene assolutamente impalpabile nei contenuti. Appunto una risposta in qualche modo politica, ancorché un po’ semplicistica, al dramma che il Paese stava vivendo in quel momento e che rimaneva acuto pur avendo da poco scampato il rischio del default.

Tuttavia, lo si è capito chiaramente in un momento successivo, l’ascesa travolgente di Renzi era stata sostenuta da quei gruppi di potere che facevano riferimento al PD e che non erano propriamente estranei alla malattia del Paese. Non a caso la rottamazione ha significato un ricambio della classe dirigente nazionale del PD che ha però continuato a fare riferimento agli stessi interessi economici e politici e agli stessi potentati divenuti ormai la struttura portante del partito e dimostratisi in molti casi veicolo di malcostume.

Quando questo è divenuto evidente, Renzi ha smesso di vincere. Ha smesso di vincere perché ha tradito le speranze di cambiamento di una parte consistente dell’elettorato che egli stesso aveva contribuito ad alimentare.

 

Quale futuro per il PD

Ancora una volta converrà ripartire dalle europee. Quel successo avrebbe dovuto indurre ad una riflessione sui due risultati principali scaturiti dalla competizione elettorale. Innanzitutto l’incremento percentuale ed assoluto dei consensi ricevuti dal PD. Il secondo aspetto, ancora più eclatante, era stato l’astensionismo arrivato alla quota record del 43%. Un astensionismo che sembrava comunque potenzialmente ricettivo ad una proposta di sinistra democratica perché sostenuto da elettori non sedotti da un offerta populista che si presentava estremamente ampia e diversificata (dal Movimento 5 Stelle  alla Lega, da Forza Italia ai Fratelli d’Italia). E’ plausibile che, almeno nel nostro Paese, il populismo avesse allora raccolto il massimo dei consensi possibili e che l’astensionismo venisse perciò da un’area culturale non populista, europeista e non anti-istituzionale ma orfana di una progetto politico convincente.

Sull’amplissima area dell’astensionismo, più che sul voto di protesta ormai guadagnato al populismo, avrebbe dovuto puntare Renzi approntando una proposta appetibile.

Allo scopo il premier avrebbe innanzitutto dovuto liberarsi della rete di consorterie da cui erano (e sarebbero ancora) scaturiti molti degli scandali che non solo hanno gonfiato il vento del populismo ma hanno anche alimentato la ancora più vasta area dell’astensionismo. In secondo luogo diveniva indispensabile che il rinnovamento della classe dirigente fosse sostenuto da una politica economica a favore della grande massa di cittadini che continuano a patire la crisi: gli ultimi ma anche i penultimi che erano e sono nell’insieme la parte largamente maggioritaria dell’elettorato. E in assenza di risorse da investire, questa politica poteva almeno essere abbozzata attraverso misure fiscali che favorissero una parziale ma più equa redistribuzione del reddito.

Queste le occasioni perdute dal premier e dal PD tutto, compresa quella minoranza che non ha saputo combattere altre battaglie che quella sulla legge elettorale e la riforma costituzionale. Vorrà e saprà il PD perseguire ora questa politica? Se non lo farà perderà le elezioni politiche. Perché la quota di consensi elettorali garantiti dalle consorterie affaristiche è ormai di gran lunga inferiore alla frazione mobile dell’astensionismo che è teoricamente sensibile alle istanze di una sinistra democratica. Non servirà cambiare segretario e premier e nemmeno sostituire i ras locali con altri di propria fiducia, magari di bella presenza. Bisogna proprio cambiare politica. E riformare profondamente la struttura di partito. Altrimenti vincerà il populismo.

 

CDL, Tivoli, 28 Giugno 2016

 

1. Ezio Mauro. La storia rottamata. La Repubblica, 21 Giugno 2016.

2. Guido Crainz. Al PD è mancata una classe dirigente. La Repubblica, 22 Giugno 2016..

3. Sulla ipotesi autogestionaria si veda: Luciano Pellicani (1994). Eclissi o tramonto dell’idea socialista? Working Paper n.85, Barcelona 1994.

 

 

 

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