Leonardo Sciascia: “Il vero italiano è Don Abbondio”

 

 

L’unico che ne esca bene è lui, Don Abbondio. L’unico che incarni la vera anima italiana, il pavido e prono servitore del potente di turno, indifferente alla sua provenienza e al suo casato, è lui. Non avrà mai tramonto la grandezza e l’intima cifra di questa figura romanzesca, specchio e verità di un carattere, di un’anima, di secoli di storia sociale e politica nostrana. Quell’umano silente che subisce e accomoda le cose, che ne accetta i dettami purché non portino scompiglio al suo angolino privato, che li gestisce nel taciuto dei suoi adempimenti purché questi non creino pericoli, insidie, trucchi; che vive insomma in omertoso assolvimento dei suoi modesti doveri e alla fine, quali che siano le sponde a cui deve pronarsi, ne esce sempre salvo e come incontaminato. Perché i veri potenti, ci dice Sciascia, sono quei manutengoli che coltivano l’ordine che viene dall’alto nelle sue maglie intatte, senza disturbi o scossoni, onorandolo e tenendolo saldo con l’eterna arte del servilismo.

Illustrazione di Francesco Gonin per I Promessi Sposi, edizione 1840.
Illustrazione di Francesco Gonin per I Promessi Sposi, edizione 1840.

In questa mirabile riflessione lo scrittore siciliano confuta, partendo da Goethe (che adorava il romanzo e ammirava Manzoni come poeta, meno invece come storico), sia Croce (che definiva il libro “senza poesia”) sia Moravia (che leggeva l’opera come “una propaganda che porta dritto alla Democrazia Cristiana”). In verità Croce, molto più tardi, ammise la grande poesia presente nei Promessi Sposi. Ma, al di là di questo, Sciascia fu sempre convinto, contro ogni visione e ogni idea contrarie, che il vero protagonista, la vera voce di dentro, il perno, nella profonda tessitura del romanzo, fosse proprio l’immortale curato. Qui di seguito la sua riflessione (Leonardo Sciascia. Cruciverba. Torino, Einaudi, 1983):

«Don Abbondio è forte, è il più forte di tutti, è colui che effettivamente vince, è colui per il quale il lieto fine del romanzo è veramente un lieto fine. Il suo sistema è un sistema di servitù volontaria: non semplicemente accettato, ma scelto e perseguito da una posizione di forza, di indipendenza, qual era quella di un prete nella Lombardia spagnola del secolo XVII. Un sistema perfetto, tetragono, inattaccabile. Tutto vi si spezza contro. L’uomo del Guicciardini, del “particulare” contro cui tuonò il De Santis, perviene con Don Abbondio alla sua miserevole ma duratura apoteosi. Ed è dietro questa sua apoteosi che Manzoni delinea – accorato, ansioso, ammonitore – un disperato ritratto delle cose d’Italia: l’Italia delle grida, dei padri provinciali e dei conte-zio, l’Italia dei Ferrer italiani dal doppio linguaggio, l’Italia della mafia, degli azzeccagarbugli, degli sbirri che portan rispetto ai prepotenti, delle coscienze che facilmente si acquietano. Anni addietro Cesare Angelini, dopo più di mezzo secolo di lettura dell’opera si chiese: perchè Renzo e Lucia se ne vanno ormai che tutto si è risolto felicemente per loro? Non seppe trovare risposta.
E pure la risposta è semplice. Se ne vanno perché hanno già pagato abbastanza, in sofferenza, in paura, a Don Abbondio e al suo sistema; a Don Abbondio che sta lì vivo, vegeto, su tutto e su tutti vittorioso e trionfante nelle ultime pagine del romanzo. Dalla vicenda il suo sistema è uscito collaudato, temprato come acciaio, efficientissimo. Ne saggiamo la resistenza anche noi, a tre secoli e mezzo dagli anni in cui il romanzo si svolge e a un secolo e mezzo dagli anni in cui Manzoni lo scrisse».

 

Cristiano Cant, 2 Marzo 2019.  Pubblicato su Il Sestante il 2 Marzo 2019.

 

 

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