“Radical chic” e me ne vanto

 

 

Da quando la destra si è ristrutturata su base sovranista e neo-populista la sua polemica politica si è rivolta contro le classi dirigenti, considerate in blocco di sinistra anche quando si richiamano palesemente a concezioni di destra. E con riferimento non solo alle élites culturali ma anche a quelle politiche e persino a quelle economiche. Così nella loro furia iconoclasta i neo-populismi sovranisti e nazionalisti non fanno grandi distinzioni. I termini, in taluni casi rivolti alle persone e in altri utilizzati per definire le idee di riferimento, hanno assunto un’accezione intrinsecamente oltraggiosa e sono divenuti sinonimi. Su tutti l’espressione di “radical chic” ma anche quella di buonista, fighetto, politicamente corretto, sinistra caviale, sinistra da salotto, sinistra champagne, professorone (o professorino, a seconda dei casi) ed altri ancora.

Tom Wolfe in un’immagine di repertorio.

La formulazione “radical chic” nasce dalla fusione del termine inglese “radical” (nel senso di intransigente sul piano ideologico) con quello francese “chic” (elegante). Il vocabolo fu coniato nel 1970 da Tom Wolfe (1930-2018), figura di intellettuale poliedrico, in occasione del ricevimento offerto dal famoso compositore e direttore d’orchestra Leonard Bernstein e da sua moglie Felicia Montealegre e finalizzato ad una raccolta fondi da devolvere a favore del movimento rivoluzionario delle Pantere Nere. La festa ebbe luogo nell’attico che la coppia possedeva a Manhattan, in Park Avenue, e vi parteciparono molti vip e personaggi noti. Peraltro anche qualche esponente delle Pantere Nere. Mesi dopo Tom Wolfe, il futuro autore de “Il falò della vanità”, grande creatore di neologismi e fondatore di quella corrente, il New Journalism, che intendeva coniugare il resoconto cronachistico con i canoni del racconto letterario scrisse un articolo per il New York Magazine (8 giugno 1970) dal titolo “Radical chic: that party at Lenny’s” (in cui Lenny deve essere inteso come diminutivo di Leonard).

Si trattava di un lunghissimo rapporto (28 pagine) costruito come un reportage di un inviato speciale1. Nasceva così un concetto che oggi è di sempre più difficile definizione per l’uso estensivo e tendenzialmente indistinto che se ne fa nell’ambito di una polemica politica aggressiva e poco incline alle sottigliezze culturali. Nell’interpretazione di Wolfe il “radical chic” era un rivoluzionario da salotto che contestava il sistema economico e sociale che produceva i privilegi di cui usufruiva. Ma, nel corso del tempo, per una serie di successive traslazioni semantiche, la formula “radical chic” ha finito per rappresentare la massima espressività di quel sistema elitario che invece, in origine, egli si concedeva il lusso di criticare. Nel vocabolario Treccanil’espressione indica “Che o chi, per moda o convenienza, professa idee anticonformistiche e tendenze politiche radicali”. Analogamente per l’Oxford Dictionary l’elemento decisivo è l’“ostentazione, molto alla moda, di idee e visioni radicali e di sinistra”3. Nella definizione di Wikipedia rimane l’ostentazione che anzi trascende nell’esibizionismo e si aggiunge un ulteriore elemento: l’appartenenza del radical chic ad una classe sociale economicamente privilegiata ed il professare idee contrarie a questa4. Secondo il Post Wolfe intendeva per “radical chic” “una specie di corrente, di moda, di milieu, un matrimonio pubblico molto ridicolo tra la buona coscienza progressista delle classi più ricche e la politica di strada, un corto circuito in cui alcuni rischiavano davvero, per le loro idee, e altri invece non rischiavano niente e in cui c’era l’illusione di una collaborazione e contaminazione tra diversi mondi e diverse classi sociali”.

Copertina del New York Magazine (8 giugno 1970)

In Italia fu Indro Montanelli ad introdurre il termine con un articolo, pubblicato sul Corriere della Sera del 21 marzo 1972, che era una velenosa invettiva contro la giornalista e scrittrice Camilla Cederna, appartenente all’alta borghesia milanese, rappresentante del “magma radical chic”, di cui criticava le posizioni favorevoli agli anarchici e a cui rimproverava una profonda incoerenza5. Ecco, l’incoerenza, come ulteriore attributo del radical chic. Anni prima, nel 1960, Montanelli aveva anticipato queste sue idee scrivendo una farsa teatrale, il cui titolo emblematico era “Viva la dinamite”, nella quale un ricco industriale proteggeva un anarchico che aveva fatto saltare in aria una galleria d’arte.

Ma Montanelli, nell’articolo contro la Cederna, sebbene nel contesto di un’invettiva che voleva essere offensiva, ancora portava degli argomenti, seppure di non eccelsa levatura. In particolare risultava criticabile la presunta incoerenza tra un’appartenenza sociale (oggettiva) e la scelta culturale (soggettiva). Ma oggi si è andati ben oltre. L’espressione “radical chic” viene utilizzata, con un significato opposto rispetto a quello originale, per identificare quelle élites che “schifano” il popolo e intendono opprimerlo per mantenere privilegi e rendite di posizione. Inoltre viene brandita come un’accetta che serve a recidere ogni discussione: “roba da radical chic” e si chiude immediatamente il discorso. Perché l’epiteto è considerato intrinsecamente infamante e l’ignominia implicita finisce per sovrastare la vacuità dell’accusa. E tanto basta nell’agone politico di oggi, nel quale gli aspetti rituali delle parole devono prevalere su quelli propriamente semantici.

Infine non si può non sottolineare che l’accusa di “radical chic” nasconde un anti-intellettualismo che oggi si sposa con gli altri topoi del neopopulismo di destra: la preminenza della forma comunicativa sulla sostanza politica, il linguaggio sin troppo disinvolto usato per scardinare il politicamente corretto, la pulsione anti-statalista dai connotati talora francamente eversivi, la polemica contro i partiti ed i corpi intermedi, l’epica della gente comune opposta alle élites. E allora perché, a fronte di tanta vacuità, il radical chic non dovrebbe inorgoglirsi e rivendicare il merito di non essere un sovranista neo-populista?

 

CDL, 1 Luglio 2019

 

  1. Tom Wolfe. Radical chic: that party at Lenny’s. New York Magazine, giugno 1970
  2. Radical-chic. Vocabolario Treccani on line.
  3. Cosa sono i radical chic? Il Post, 24 agosto 2014.
  4. Radical chic. Wikipedia.
  5. Uno stralcio dell’invettiva di Montanelli è riportata in: Cosa sono i radical chic?, cit.

Scopri di più da

Abbonati ora per continuare a leggere e avere accesso all'archivio completo.

Continue reading